Negli ultimi due anni siamo diventati più poveri di tutto. Relazioni, bisogni alimentari, economici e culturali. Ma quando parliamo di povertà non si può pensare solo a quella economica o alimentare che coinvolge persone fragili e deboli con serie difficoltà legate ai bisogni primari e che dispongono di risorse molto minime vicino alla soglia di povertà.
Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo è il primo tra i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. In Italia più di 4 milioni di persone vivono in condizioni di povertà e di questi più di un milione sono bambini. Riflettiamo proprio sul tema della povertà con Don Franco Lanzolla parroco alla Cattedrale di San Sabino e sociologo. Ex sessantottino puro. Convertito. Don Franco entra in seminario al primo anno di università nel ’73 e si laurea in sociologia a Roma nel ’78 periodo di massima risonanza delle Brigate Rosse. In questi anni vive la ribellione delle giovani generazioni o il referendum del divorzio. Quando si è laureato alla Sapienza di Roma nessuno sapeva che era seminarista prete.
Don Franco, se le dico povertà a cosa pensa?
«La povertà vera della nostra città è la povertà culturale che viene dal non aver coltivato l’intelligenza e la volontà. L’umanità è costruttrice di se stessa dobbiamo ritrovare da capo i luoghi educativi al lavoro, alla professionalità, all’arte e ai mestieri».
Quali sono le cause?
«È conseguenza di una povertà anche spirituale o di processi educativi non avvenuti, perché solo alcuni possono accedere alla formazione di eccellenza di alcune professionalità. C’è un’ampia fascia della nostra popolazione che sceglie scuole non qualificate, ma che comunque attestano qualifiche con titoli formali e burocratici. Tutto questo penalizza il mercato del lavoro che non trova professionalità più ampie».
Ci può indicare una soluzione?
«La povertà non si risolve soltanto arrivando all’ultimo minuto e donando un pacco con beni di prima necessità. Possiamo intervenire in emergenza, ma dobbiamo fare dei lavori strutturali, a partire dalla formazione e dalla cultura, per creare luoghi e processi educativi, perché la Repubblica è fondata sul lavoro e non sui sussidi».
La voce del verbo “ascoltare” è tra le più importanti da dire ai giovani?
«Certo. Bisogna fare attenzione al registratore che abbiamo nel nostro cuore, la nostra coscienza. Dobbiamo ritrovare da capo la capacità di essere protagonisti della nostra vita. Non siamo in un destino voluto dalla natura. Così era nell’antica Grecia dove la natura decideva un destino sull’uomo, ma non siamo neanche bloccati da un destino che viene dalla cultura di un sistema economico. Noi ci siamo sempre ribellati ai destini. Abbiamo creduto nella nostra originalità e nel nostro protagonismo, responsabile e capace di produrre benessere spirituale, culturale economico e relazionale».
Qual è la strada del riscatto?
«Dobbiamo recuperare la nostra capacità di libertà. Uomini liberi dal destino o da processi economici che ci fanno nascere già con l’ipoteca. Non siamo nati per essere una massa di sudditi di un nuovo faraone che è il sistema finanziario economico. Siamo capaci di riprendere in mano la nostra libertà, più spazio per il nostro protagonismo e per la nostra responsabilità».
Cosa devono fare i giovani per ascoltare di più ed essere meno poveri di cultura?
«Devono recuperare da capo il sogno su se stessi. I giovani devono ritornare a sognare. Solo chi sogna poi trasforma i sogni in progetto. Il sogno ha la capacità di andare oltre lo storico oltre la fisicità. Il sogno ha la capacità di inventare il futuro però questo sogno ha bisogno di restare con i piedi per terra, con le proprie risorse intellettive, economiche e relazionali. Certo non può essere un fatto privato la cultura dell’individualismo. L’individuo da solo non può costruire futuro. Dobbiamo ritornare da capo a fare squadra, a fare gruppo, a fare comunità. I giovani per prima cosa devo attivare un processo di comunità. Non solo essere antagonisti al sistema ma essere protagonisti nel sistema, perché il sistema si cambia da dentro».