Eugenio Finardi non fa pose da leggenda. Ti riceve con l’aria da zio saggio che ha appena smesso di fumare, ma potrebbe ricominciare in qualsiasi momento. Sul tavolo però ha parole e non sigarette: sono affilate, vagabonde, testarde. A 72 anni – «più vecchio della plastica», dice lui – pubblica Tutto, un disco che sembra un’arma bianca contro l’omologazione: suona fuori dal tempo, in tempi dispari, e sfida persino l’intelligenza artificiale. «Ho scritto pezzi che Suno non sa suonare», ti dice tranquillo. Finardi non ha mai avuto paura di essere fuori moda, ma oggi è più moderno di tanti ventenni in autotune. Non lo troverai in un meme, ma può spiegarti perché un vocoder usato bene è come un coltello per spalmare il burro. E mentre ti parla della Milano che scriveva “Pentitevi” sull’asfalto e dei concerti di una vita, ti accorgi che non è un sopravvissuto: è ancora un esploratore.
Ha detto che questo disco è un po’ un lascito. Per chi?
«Per i miei figli. Credo sia il mio ultimo disco di inediti: ho 73 anni, l’ultimo l’ho fatto 11 anni fa. Se ne aspetto altri undici, arrivo a 84. E l’ispirazione, da anziani, non arriva sempre».
È un lavoro che guarda indietro o avanti?
«Avanti. Non ho conti da chiudere. Provo ancora stupore nel vedere che riesco a scrivere, che c’è ancora qualcosa da sognare, da amare, da desiderare. Anche se avverto il tempo che passa: non scio più, ad esempio, perché non mi fido delle ginocchia (ride ndr)».
E quando scrive musica? Li sente i suoi anni?
«Sì, ma non come limite. La mia età mi dà spessore. Io sono più vecchio della plastica, pensa che quando sono nato non era ancora stata inventata».
Si sente un uomo nostalgico?
«Non molto. Non rimpiango la fuliggine che anneriva il Duomo o la mancanza d’aria condizionata, ecco».
Parliamo dell’album: “Tutto” ha suoni contemporanei ma non per questo strizza l’occhio a tutti. Come ci è arrivato?
«L’ho realizzato con Giovanni “Giuvazza” Maggiore, che potrebbe essere mio figlio. Abbiamo lavorato con strumenti reali – tamburi del Salento, barre, oggetti che avevamo in studio – e con campioni dal mio passato. Ho collezionato trent’anni di campionature. Per esempio, in “Tanto tempo fa” c’è la batteria originale di “Trappole” del 1980. La vera sfida è stata comporre pezzi originali. Mentre lavoravamo all’album è uscito Suno, un software AI che compone canzoni. L’ho provato. Fa tante cose, ma non riesce a scrivere in tempi dispari. La mia “Futuro” è in sette quarti, “Massiccio attacco di panico” in cinque, “Bernoulli” in sei ottavi. Sono cose che oggi una macchina non sa fare. Non è un disco contro l’AI, ma una sfida».
L’album gioca molto a richiamare immagini, l’ho trovato molto “cinematografico”.
«È nato così, da immagini e sogni. È molto visivo. Evocativo. Mi ha ispirato la serie “Love, Death & Robots”, fatta con IA e grafica digitale. Come “Black Mirror”, esplora i confini. Questo disco è lo stesso: un racconto del presente».
Come si è evoluto negli anni il suo processo creativo?
«A vent’anni le canzoni venivano da sole, come gli ormoni. Oggi l’ispirazione va cercata. Cerco strade nuove, approcci diversi. Musicalmente è un disco consapevole, ma i testi sono puro flusso di coscienza».
Parliamo di “Pentitevi”. È un grido o una parodia?
«È un’istantanea. Da bambino a Milano vedevo un tizio che scriveva per terra con vernice bianca: “Pentitevi!”. La canzone parte da lì, poi racconta il degrado ambientale e sociale di una città che è passata dal contadino all’iper-consumo».
Come è nata la scelta di coinvolgere sua figlia Francesca nel nuovo disco?
«Perché è dedicato a lei. Francesca ha 25 anni, ha avuto un papà già anziano. Le canzoni che avevo scritto per i figli risalgono a prima che lei nascesse. Qui c’è finalmente spazio per lei: “Francesca sogna”, “I venti della luna”, “La battaglia”… è il suo disco».
Che rapporto ha con i social?
«Li trovo tossici. Mi fanno male. Ci sto alla larga se posso. Su Facebook ho ricevuto insulti forti. Uno ha scritto: “Quel vecchio cretino dovrebbe andare in pensione”. Sono cose che mi feriscono. I like che preferisco sono quelli che arrivano dalla gente per strada vivo. Come quando uno mi ferma al supermercato e dice: “Ti ho visto alle Iene, mi hai fatto ridere”».
Cosa pensa invece dell’autotune?
«È uno strumento come gli altri. Se lo usi per mascherare che non sai cantare, non va bene. Io l’ho provato, ma su di me ha poco effetto. Nel disco ho usato vocoder, Melodyne… Mi piacciono gli effetti vocali, se usati bene. Billie Eilish, per esempio, lo usa per creare armonie. È come un coltello: puoi tagliarci il pane o farci del male».
Lei è stato artisticamente coerente per tutto il corso della sua carriera. Ha pagato un prezzo per questa scelta?
«Certo, soprattutto in termini economici. Ma mi ha dato libertà. La mia coerenza è stata fare dischi sempre diversi. Se avessi venduto un milione di copie, non avrei potuto permettermi certi esperimenti. Oggi non ho una piscina, ma ho fatto la musica che volevo (ride ndr)».
Guardando indietro, c’è qualcosa di cui si pente?
«Di molte cose. In particolare di essere stato troppo impulsivo, artisticamente e nella vita. Mi sarebbe piaciuto essere più ponderato. Ma forse così non sarei diventato chi sono».
Rimpianti lungo il percorso?
«Negli anni ’80, con l’arrivo dei videoclip, io ero altrove. Ero preso da problemi personali, non ho mai curato l’immagine. Venivo da un’epoca in cui la cosa più importante era sembrare autentici. Poi è arrivata la “Milano da bere”, ma io non l’ho mai bevuta. Sono sempre stato fuori tempo, fuori moda».
Per puro spirito di contraddizione?
«Sono cresciuto con mamma americana e papà italiano, tra due lingue, due culture. Ho sempre visto l’alternativa. Anche per puro gusto, riesco sempre a prendere la posizione opposta a quella in voga. È il mio modo di pensare».
Cosa prova quando riceve complimenti dai fan, quando le dicono: “Sei un genio”?
«Mi imbarazza. Se mi dici che canto bene, ok: ho una tecnica vocale notevole. Ma dire “sei il più grande di tutti” non ha senso. Hai mai ascoltato De Gregori? Jimmy Page? Jeff Beck? Un complimento vero è quando uno ha capito davvero quello che fai. Se mi dici “usi dodici voci diverse in un brano”, allora sì, ti credo».