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Torino Film Festival, Edoardo Winspeare: «Racconto la fragilità perché rivela chi siamo» – L’INTERVISTA

Con «Vita mia», presentato nella sezione «Zibaldone» del 43esimo Torino Film Festival, Edoardo Winspeare porta sullo schermo una storia che attraversa il Novecento e approda nel Salento, dove due donne lontanissime per origine e carattere finiscono per riconoscersi. Il film, girato tra Depressa, Sternatia, Tricase e Santa Maria di Leuca, nasce da una matrice personale: la vicenda familiare del regista, intrecciata alla storia dell’aristocratica ungherese Didi e della giovane Vita, chiamata ad assisterla negli ultimi anni.

Winspeare, che cosa significa per lei essere presente al Torino Film Festival?

«Sono molto contento. È un festival importante e non c’ero mai stato. Sono stato a Venezia, Berlino, San Sebastián, ma qui mai. È un’ottima esperienza e sono felice di parteciparvi».

Nel film, Didi e Vita sembrano incontrarsi in uno spazio comune, quello di due solitudini. Che cosa l’ha spinta a raccontare un’amicizia che nasce quando la vita sembra aver già voltato pagina?

«Credo che la vita riservi sorprese anche all’ultimo. Si può cambiare, crescere, migliorare. E perfino aspettarsi piccoli miracoli d’amicizia verso il tramonto. La storia nasce da una vicenda personale: quella di mia madre, molto simile a quella di Didi. Il carattere era diverso, mia madre era più simpatica, ma le origini, il percorso, il trauma della guerra e persino il rapporto con la badante sono elementi reali».

Gran parte del cast e degli ambienti proviene dalla sua vita privata.

«Sì. La signora anziana del film era la vera badante di mia madre. Celeste Casciaro, che interpreta Vita, è mia moglie. Il marito della badante è interpretato da mio suocero, e molti degli ospiti sono miei cugini. È un film che attinge sia alla famiglia popolare sia a quella non popolare».

Che rapporto ha avuto sua madre con la Puglia?

«Profondissimo. Mia madre era ungherese, ha vissuto a Budapest fino a tredici anni, poi la fuga dopo la guerra, l’esilio, il lavoro in Francia. Anche la citazione di Dior che riporto nel film è vera: ha lavorato da lui. Quando sposò mio padre, che aveva un’azienda agricola in Puglia, tutti pensavano che avrebbe voluto vivere a Napoli. Invece decise di trasferirsi a Depressa. Diceva che le ricordava l’Ungheria. La Puglia degli anni Sessanta le sembrava un altro mondo: superstizione, tarantate, una gentilezza straordinaria».

Il Salento è cambiato molto da allora?

«Tutto cambia. All’epoca nemmeno i salentini avevano piena consapevolezza dell’identità salentina. Oggi è diverso, il turismo ha trasformato tutto. Ma resta una terra con mentalità da isola: la gentilezza, i gesti, la cortesia. Io la amo anche per questo».

Ha definito la malattia di sua madre come origine segreta del film. In che modo quell’esperienza ha trasformato la sua idea di fragilità?

«Mia madre era una donna molto forte, coraggiosa, che non si lamentava mai. Vederla fragile me l’ha avvicinata. Le allucinazioni degli ultimi anni mi hanno fatto capire cose di lei che non aveva mai detto, per il suo modo di non far pesare nulla. E poi c’era il contatto con il calore mediterraneo: la badante la accarezzava e lei rideva, sorpresa. Diceva: “Ma questo si usa qui?”. Era bello vederla scoprirlo».

Anche se sua madre non c’è più, l’ha sentita vicina durante le riprese?

«Parlavo con lei. Le dicevo: scusami se nel film ti rendo un po’ antipatica, non sei così. Anche la rappresentazione dei figli è autoironica: il regista che gira reportage sui gusti sessuali degli italiani, l’attrice senza successo a Parigi… Ci sono io lì, anche se forse con un pizzico più di fortuna».

Che cosa significa per lei il successo oggi?

«È la riconoscibilità da parte del pubblico. Ma a me va bene averne poco. Ho scelto di vivere nel Basso Salento, dove molti pensano che nemmeno faccia film veri, perché non uso attori famosi. Ma questa libertà mi permette di restare vicino a ciò che amo».

Vivendo altrove avrebbe avuto un percorso diverso?

«Probabile. Ma avrei fatto altri film. I miei, invece, sono popolari, narrativi, con personaggi costruiti. L’uso del dialetto non è ideologia: è che gli attori, se parlano italiano standard, parlano male. L’Italia ha una ricchezza linguistica unica: il dialetto racconta il passato, la classe sociale, i gesti. Vale la pena conservarlo e diffonderlo. E non è solo una questione di lingua. Mia moglie, per esempio, basta che inarchi le sopracciglia e io capisco tutto, se è di buon umore, se è contrariata. È questo patrimonio invisibile che cerco di portare nei miei film».

Nel film ritorna la storia del Novecento: la guerra, l’esilio, la Shoah. Perché è ancora così importante narrarla?

«Perché è la più grande tragedia del nostro continente. E perché è metafora di tutto: Gaza, Armenia, Sudan, Ruanda. Per me è personale: mia madre ha visto scomparire tutti i suoi amici ebrei. La sua madrina era ebrea. Raccontare questa storia è un dovere».

Vede un legame con l’attuale situazione politica mondiale?

«Sì. Possiamo sempre ricadere nell’incubo della dittatura. Nel film intreccio piccola e grande storia proprio per questo. Basta guardare l’ascesa degli autocrati: Putin, Erdogan, Netanyahu. Anche Trump, se potesse, farebbe a meno della democrazia. È successo nella Repubblica di Weimar: una società aperta travolta dal nazismo. I tre totalitarismi del secolo – nazifascismo, stalinismo, nazionalismo – restano un monito».

Ha definito il legame tra le due protagoniste «un’altra versione dell’amore». Qual è quest’altra faccia dei sentimenti?

«È una grande storia di amicizia tra due donne diversissime: classe sociale, geografia, lingua, idee politiche. Eppure diventano amiche. È un film sui pregiudizi: cadono, o almeno si incrinano, quando si conosce l’altro. È un’utopia, forse, ma necessaria. Bisogna opporsi alla tendenza tutta umana a dividersi».

Si considera più un utopista o un sognatore?

«Forse entrambe le cose. Ma continuo a credere che valga la pena provarci (sorride, ndr)».

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