Tom Cruise corre poco, stavolta. Un paio di minuti in tutto, su tre ore di film. Fa impressione, perché negli ultimi vent’anni di “missioni impossibili” lo avevamo identificato così: un uomo che corre, e correndo cerca di tenere indietro il tempo, la morte, il declino, il disincanto. Correva nella sabbia di Dubai, tra i tetti di Londra, sulle ali degli aerei. Stavolta, invece, è come se avesse rallentato. O si fosse accorto che non si può correre per sempre. E allora si ferma, almeno un po’. E guarda.
Guarda anche il pubblico, guarda la seconda parte di Mission Impossible – The Final Reckoning, ottavo e forse ultimo capitolo di una saga che negli ultimi film ha provato a mettersi addosso il mantello della fine del mondo. Il risultato è un’opera mastodontica, cupa, spesso ridondante. Eppure, in certi momenti, sinceramente bella. Come una vecchia cerimonia che ormai conosciamo a memoria, ma che non riusciamo a smettere di amare.
L’ora della fine del mondo
L’Apocalisse, qui, ha il volto di un’intelligenza artificiale onnipotente, l’Entità, che domina le reti, manipola le informazioni, decide chi vive e chi muore. Una minaccia astratta, ma terribilmente attuale. Non a caso il film ne parla con una gravità quasi teologica: c’è una nuova religione, un culto del caos, e ogni decisione viene giustificata con un inquietante “era scritto”. Ma per quanto la sceneggiatura cerchi di nobilitare la trama con dosi massicce di fine-del-mondo, il cuore resta Cruise. Il suo Ethan Hunt è ancora lì, a difendere un’idea di bene che non si può spiegare, solo agire. Il film, al solito,viaggia per mezzo mondo – Malta, Norvegia, Sudafrica – come se volesse ricordarci che il cinema è, prima di tutto, una forma di trasporto. E nel suo miglior segmento – una lunga immersione silenziosa nel relitto di un sottomarino russo – riesce finalmente a spegnere la verbosità logistica e a tornare al puro spettacolo fisico. Cruise che nuota in mutande, tra torpedini e macerie, è un’immagine che non dimentichi. Forse involontaria, forse infantile. Ma sincera.
I vivi e i fantasmi
In The Final Reckoning, i personaggi parlano spesso del passato. Di quello che hanno perso. Di chi hanno visto morire. E McQuarrie, il regista, insiste sui richiami al primo film del 1996: inserti, citazioni, addirittura un flash di coltello che rievoca De Palma. È un modo per chiudere il cerchio, ma anche per dire: «Guardate com’eravamo». Il confronto non è sempre lusinghiero. Il cattivo di oggi – Gabriel – è un buco nero narrativo, e le figure femminili appaiono sbiadite, depotenziate, quasi scollegate dal resto. Come se il film, travolto dalla propria gravitas, avesse dimenticato che l’azione è anche gioco, non solo sacrificio.
Eppure, a modo suo, The Final Reckoning funziona. Perché non ci dà solo un’altra missione, ci dà un uomo. Più vecchio, forse un po’ stanco, ma ancora in piedi. E noi con lui.
Ancora qui
L’ultima volta che Cruise interpreta Hunt. Così dicono. E se così fosse, The Final Reckoning avrebbe almeno il merito di chiudere con onestà. Con tutte le sue sbavature, le sue esagerazioni, i suoi momenti a vuoto. Ma anche con quella lealtà incrollabile al proprio protagonista. A quell’uomo che corre. E che, anche quando non corre più, continua a sfidare il tempo, non per vincerlo, ma solo per non arrendersi.