Stefano Senardi, a margine della presentazione del suo libro “La musica è un lampo”, per il Medimex ‘24, racconta una delle sue. A cena con la Pivano ci dava dentro a bere, perdendosi tra aneddoti che coloriva, lasciando la scrittrice incredula. Si affatica un po’ a parlare, ha gli occhi nostalgici e tutti al Caffè letterario di Taranto lo ascoltano attenti.
Come nasce questo libro ?
«Da una devozione inesauribile iniziata da bambino, coltivata in giro, negli anni ’70: era come essere Pinocchio nel paese dei balocchi. A 18 anni sono andato a Londra in autostop, sono entrato in un negozio di dischi e mi è venuta la febbre. Ho iniziato ad ascoltare tutta la musica che potevo. La mia fortuna è stata far diventare questa passione il mio lavoro, stando sempre vicino agli artisti. Seppur questo sia stato spesso criticato dai miei capi ha fatto la differenza, mi ha fatto far carriera. Il libro nasce durante un trasloco che è un po’ come un incendio: tendi a perdere tutto. Ho trovato tutti i pass e i biglietti collezionati. Volevo incorniciarli, poi ho deciso di raccogliere tutto in un libro».
Ha vissuto tanto la notte nella sua vita. Cosa ricorda?
«Per motivi di salute di notte non vivo più, vado a letto dopo cena. Ho ricordi bellissimi, soprattutto dei locali che frequentavo. Oggi sempre più attività notturne chiudono, è la deriva di un gigantismo che porta tutti a volersi esibire negli stadi, soprattutto in Italia. Viva la musica, teniamo aperti i locali che aggregano e finiamola di voler suonare a San Siro a tutti i costi».
Le dico un nome e mi dice cosa le viene in mente. Madonna.
«Ho lavorato con lei, averla negli anni di “Material girl” e “Like a virgin” era un paradiso per un direttore del marketing. Quando si esibì a Torino nel 1987, il concerto fu trasmesso dalla Rai. Fu uno dei momenti in cui incrementarono le vendite dii videoregistratori. Eravamo insieme nel camerino, mi guardò nello specchio e mi chiese di tradurle un paio di frasi in italiano, tra cui “Siete caldi? Siete pronti?”. Un personaggio straordinario».
Lou Reed.
«L’ho conosciuto nel momento più borderline. Concerto a Bologna, tutto pronto e Lou non si trovava, sparito. Ci arrivò una telefonata: era nel bar della stazione di Bologna a giocare a flipper da solo. Non ho mai capito come ci fosse arrivato».
Battiato.
«È stato un caro amico. Ci ha regalato stimoli, intuizioni, ha aperto nuovi mondi, ci ha attratto col pop, portandoci poi in profondità. Era straordinario quanto normale. C’erano momenti in cui aveva bisogno di solitudine, restano i tanti viaggi insieme».
Grignani.
«L’ho sentito di recente, gli ho chiesto “Come stai?”, mi ha risposto “Abbastanza bene, ma non mi capisce nessuno”. È un talento pazzesco che non si vuole bene».
C’è spazio per musica di qualità nell’era di talent e social?
«I tormentoni durano una stagione. Questa isteria delle visualizzazioni sta finendo. L’idea forsennata di seguire l’algoritmo non porterà da nessuna parte. Si tornerà gli artisti validi e alle cose che restano».
La colonna sonora della sua vita?
«“Astral Weeks”, il disco di Van Morrison. Ma se chiedi tra cinque minuti sono sicuro che te ne dico un’altra».