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Su Disney+ la serie su Sarah Scazzi, Mezzapesa: «Vi racconto il male» – L’INTERVISTA

Raccontare uno dei casi di cronaca nera che ha sconvolto l’Italia intera, con una serie tv. Questo ha fatto il regista Pippo Mezzapesa, con “Avetrana - Qui non è Hollywood”, narrando il delitto del 2010 in cui ha perso la vita la giovane Sarah Scazzi. Dopo la presentazione alla Festa del cinema di Roma, la…

Raccontare uno dei casi di cronaca nera che ha sconvolto l’Italia intera, con una serie tv. Questo ha fatto il regista Pippo Mezzapesa, con “Avetrana – Qui non è Hollywood”, narrando il delitto del 2010 in cui ha perso la vita la giovane Sarah Scazzi. Dopo la presentazione alla Festa del cinema di Roma, la serie – basata sul libro “Sarah la ragazza di Avetrana”, di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni – arriva dal 25 ottobre, in 4 episodi, su Disney+.

Partiamo dal titolo. Perchè la scelta del “Qui non è Hollywood”?

«Racchiude un po’ uno dei motivi per cui è stata concepita questa serie. È un caso di cronaca che ha acceso i riflettori su un contesto di grande normalità, di anonimato, come quello di un piccolo paese. Avetrana, da quel momento in poi, si è trovata tutti gli occhi addosso. Un circo mediatico che è partito improvvisamente, stravolgendo la quotidianità della comunità».

Quando ha appreso la notizia del fatto di cronaca, si ricorda che impatto ha avuto su di lei?

«Credo lo stesso che ha avuto su tutti. È stato graduale, con la notizia di una sparizione; prendendo col tempo, la forma di quello che è stato. Non è stato un impatto dirompente, ci si è avvicinati, fino ad essere stravolti dalla notizia del ritrovamento del corpo di Sarah, arrivata in modo eclatante in diretta tv. Da quel momento si è valicato il limite, e i riflettori non si sono più spenti».

Come è stato immergersi in questo avvenimento, lavorandolo dall’interno?

«Quando si raccontano queste storie è importante avere delicatezza, grazia. Non bisogna perdere di vista il fatto che si raccontano esseri umani, che siano essi vittime o carnefici. Cercare, scandagliare tra le fragilità che hanno potuto portare a un evento così drammatico. E poi bisogna entrare in contatto con le conseguenze dell’evento, sia per quanto riguarda le persone coinvolte direttamente, sia per la comunità stessa».

Perchè la scelta di una serie in 4 episodi, piuttosto che un lungometraggio?

«La serialità mi ha dato modo di avere un contenitore più ampio, un margine di racconto maggiore. Ho così assecondato la volontà del racconto, creando una pluralità delle voci, seguendo vari punti di vista che si succedono».

Nella colonna sonora c’è la canzone “La banalità del male” di Marracash. Da dove deriva questa scelta?

«Marracash ha visto la serie e ha composto il pezzo di conseguenza. C’è un verso della canzone che dice “Il male è banale, comprenderlo è complesso”. In questa strofa si racchiude il motivo stesso che ci ha spinti a realizzare questa serie».

Cosa pensa delle polemiche sollevate dal sindaco di Avetrana, che ha dichiarato che la serie lede l’immagine del comune?

«Preferisco non rispondere a questo. Credo che ognuno debba esprimere quello che preferisce. È un delitto associato chiaramente a un luogo, nel momento in cui si racconta l’effetto che l’evento ha avuto su quel luogo, non si possa prescindere dal riferimento al luogo stesso.

È un po’ mettere la testa sotto la sabbia? Parliamo di un caso di cronaca che ha sconvolto il Paese…

«Pensa che su Wikipedia la parola “deitto” passa come “Delitto di Avetrana”. E di questo non sono responsabile io. Ma alla fine credo sia un atto dovuto quello del sindaco».

C’è un po’ di ridondanza da parte di chi grida alla spettacolarizzazione della tragedia?

«Non credo nelle spettacolarizzazioni. Credo nella necessità di narrare la storia. Questa tragedia ha caratterizzato la cronaca italiana, e i fatti di un Paese devono essere raccontati. Con la giusta sensibilità, e rispettando i limiti della verosimiglianza quando ci si approccia alle libertà narrative, e con la dovuta lealtà verso gli atti processuali che sono stati attentamente studiati. Credo il nostro sia un doveroso racconto».

Possiamo definirla retorica quella che è piovuta dopo l’annuncio della serie?

«Più che retorica credo sia banalità»

La serie ha attirato un sacco di critiche prima ancora di essere vista. Vale la frase di Andy Warhol, secondo cui ogni pubblicità è una buona pubblicità?

«Preferisco si parli dei contenuti. Mi fa specie che si sia sollevato un polverone su questioni di marketing, poster e presunta etica del racconto. Ora spero si inizi anche a parlare di ciò che mi interessa, i contenuti».

Anche perchè parlare di “etica del racconto” senza aver visto la serie, vuol dire essere prevenuti…

«Esatto… prevenuti. E non aggiungo altro (ride ndr)».

C’è stato un memento particolare mentre lavoravi alla serie che ti ha commosso?

«È una storia che ti prende dentro, mettendoti di fronte a un’analisi su fin dove spingerti nel racconto. Il primo episodio della serie, quello dal punto di vista di Sarah, è stato il più difficile emotivamente. E il più coraggioso da ideare».

Con questo lavoro hai dovuto metterti faccia a faccia col male?

«Quello lo si fa quotidianamente. Nel momento in cui devo raccontare la realtà con gli occhi dei personaggi, cerco di distaccarmi. Il mio è stato un annullamento».

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