Categorie
Bari Cultura e Spettacoli

Quel tempo da abitare nel Meridione di Patruno. Arriva “Il Sud ha vinto”

Non comincia come un saggio, ma come una provocazione. “Il Sud ha vinto”: tre parole che sembrano un paradosso, una sfida alla logica, una smentita che gioca, a viso aperto, contro ogni luogo comune. In apparenza, una forzatura. In realtà, un cambio di asse. Il giornalista e accademico Lino Patruno, autore ostinato e profondo conoscitore delle dinamiche del Meridione, non elabora una spiegazione, non cerca giustificazioni. Afferma. Ribadisce. Costruisce un discorso circolare, ossessivo quanto necessario. Il Sud ha vinto “nonostante tutto”: e quel “nonostante tutto” diventa cifra retorica, ma anche denuncia sistemica. La frase ritorna come un incantesimo, una formula che, ripetuta, fa emergere una verità taciuta.

Ribaltare la lentezza

L’intenzione non è convincere con i numeri, anche se i numeri non mancano. L’obiettivo è un altro: smontare la narrazione. Mostrare come una certa idea di Sud – fallito, immobile, assistito – sia il prodotto di uno schema costruito altrove. Un alibi collettivo. Una colpa redistribuita. Ma è nel secondo capitolo che il libro compie il suo scarto più radicale. “La modernità si chiama lentezza” non è un titolo che prova a essere piacione e ammiccante: è una tesi che rovescia secoli di pensiero economico, filosofico, politico. La lentezza, storicamente attribuita al Sud come zavorra, viene riscoperta come risorsa. Non più segno di arretratezza, ma antidoto alla malattia del presente: l’iperattività, la performatività, la dissipazione dell’attenzione.

Una metafora di resistenza

Patruno compone una sorta di atlante della lentezza. Scorrono, tra le sue pagine, voci diverse e convergenti: Calvino, De Masi, Byung-Chul Han, Seneca, ma anche la poesia degli oggetti, il silenzio delle giornate, la forza del “non fare”. Il Sud diventa una metafora della resistenza umana contro la logica produttivista. E più che un territorio, si trasforma in uno stato mentale. In questa visione, la lentezza non è rinuncia ma visione. Non è abbandono ma consapevolezza. È capacità di profondità, di ascolto, di misura. Una qualità politica ed esistenziale che permette di sottrarsi alla corsa cieca del tempo contemporaneo. L’autore non teorizza: mostra. Evoca. Fa emergere un sentimento comune a chiunque, a ogni latitudine, si senta sopraffatto dalla fretta imposta. Nel corso del libro, il Meridione smette di essere un luogo da difendere e si impone come modello da osservare. È la geografia dell’intervallo, dell’attesa, della contemplazione. È il punto in cui il tempo torna a essere umano. Il testo non elude la complessità né semplifica il disagio. Non nega i problemi, ma li disloca. Svela come la narrazione del divario sia stata spesso costruita a partire da criteri estranei, indicatori che misurano altro, altrove. Il Sud non ha mai avuto le stesse condizioni di partenza, ma è stato giudicato come se le avesse. Ha corso con le scarpe slacciate, eppure è arrivato. Ha resistito, ha creato, ha immaginato.

Oltre ogni tempo

A conti fatti, il messaggio più profondo è che il Meridione non ha vinto solo per sé. Ha vinto per chiunque oggi senta il bisogno di un’altra velocità. Di un altro tempo. Di una forma di vita che non identifichi l’essere con il fare. In un mondo che premia la prestazione, che trasforma la connessione in dipendenza e la produttività in ossessione, il Sud – con il suo ritmo diverso – si offre come possibilità. Questo non è un libro che non si limita a denunciare, ma si offre come spioncino della serratura. Propone una pedagogia della pazienza, un’etica della disconnessione, una politica dell’anima. Non contiene una soluzione, ma custodisce un gesto: il gesto di guardare altrove, di pensare altrimenti. Di rallentare. Se il Sud ha vinto, è perché ha saputo resistere senza gridare. E perché, nel frastuono del mondo, quella silenziosa resistenza prova a somigliare a una forma di saggezza.

Lascia un commento Annulla risposta

Exit mobile version