Quel sognatore di André Breton. Cent’anni del Manifesto surrealista

La vita come un gioco a credito. E man mano che l’esistenza la guardiamo in faccia, quel credito inizia a perdersi. Derubricato, si esaurisce; corroso dalla marea, instancabilmente puntuale, del tangibile. A cent’anni dalla prima stesura del “Manifesto del Surrealismo” di André Breton, il quadro “L’incontro degli amici” di Max Ernst può rappresentare un buon punto di partenza per analizzarlo. Nella scena sono dipinti scrittori e artisti del movimento, alcuni comodamente seduti su delle sedie – invisibili – in primo piano, altri in piedi alle loro spalle, e ancora facce fumose sullo sfondo. La parodia confusa di una foto di gruppo, una montagna innevata sotto un cielo nero, il mondo astratto del sogno che ingoia tutto, tutti. Anche chi il quadro lo guarda. Lo spettatore preso dal bavero della giacca e trascinato di peso nell’opera. La magie, direbbero a Parigi. Ed è un po’ quello che fa lo stesso Breton nella sua opera, gioca ad essere un illusionista, cammina all’indietro, dando le spalle alla tecnica e a tutte le sue declinazioni, un ritorno – occhi spalancati – al fantastico, all’onniscenza smisurata di chi sa ancora desiderare. Il Manifesto è una critica feroce alla società del tempo, la condanna senza appello a logica e razionalità che limitano la libertà dell’individuo, soffocandone la creatività, la proposta di un approccio spontaneo al “fuori”, basato sull’esplorazione del subconscio.

Le immagini

Le immagini surrealiste secondo Breton funzionano come quelle dell’oppio: non è l’uomo a evocarle ma gli si offrono spontaneamente, dispotiche. Non c’è possibilità di governarle, né tantomeno congedarle; la volontà propria è inerme, nessuna possibilità di scelta, l’evoluzione incontrollata dell’uomo in vittima e carnefice, insieme.

Il linguaggio

E poi il linguaggio. Il senso di prigionia indotto dal reale, la volontà ferma di rottura liberatoria dai vincoli razionali. «Un’altra costrizione non meno rigorosa e che provavamo il bisogno irresistibile di scuotere è quella che lo spirito critico esercita sul linguaggio e, in maniera generale, sui più variati modi di espressione» scrive Breton. Il surrealista deve vivere sul filo di un delicato equilibrio. Evadere, evitando la trita quotidianità, vincendo il rischio di rimanere ostaggio degli stati allucinatori, del fascino dell’universo profondo trovato in sé stesso, dove l’artista si avventura per dar vita all’opera.

L’oracolo

Tutto in funzione del “l’altrove”, la terra promessa, la profezia con cui si conclude il libro. «Quest’estate le rose sono azzurre; il bosco è vetro. La terra drappeggiata nelle sue fronde mi fa tanto poco effetto come un fantasma. Vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L’esistenza è altrove».

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