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Lo show di Panariello fa tappa a Bari: «Il presente non fa ridere, quindi guardo al futuro» – L’INTERVISTA

«E se domani cambiasse tutto? E se domani non cambiasse nulla?». È con queste domande che si apre «E se domani…», il nuovo spettacolo di Giorgio Panariello, reduce dal successo delle prime serate al Teatro Brancaccio di Roma e ora in tournée in tutta Italia. Un viaggio ironico e surreale nel futuro, dove il comico toscano – tra nuovi personaggi, aneddoti, musica e trovate tecnologiche – racconta il nostro presente con la leggerezza e la malinconia che da sempre lo contraddistinguono. Domani Panariello sarà sul palco del Teatro Team di Bari.

Partiamo dal titolo. «E se domani…» è un viaggio ironico nel futuro. Da dove nasce l’idea di spingersi avanti nel tempo?

«L’ho fatto per due motivi: il primo è per scavalcare a piedi pari questo presente che non racconta niente di buono. Cercavo ispirazione per i miei monologhi, ma la realtà ormai supera la fantasia, quindi ho perso. Allora ho pensato di andare a vedere che cosa ci sarà “al di là”. Parlare del futuro mi sembrava una buona idea anche per un motivo pratico: quando scrivi uno spettacolo a maggio o giugno, a settembre è già vecchio. Le notizie cambiano di continuo, e qualsiasi cosa tu scriva oggi, domani non vale più. Così ho deciso di proiettare anche i miei personaggi nel futuro, di dar loro nuovi stimoli. E poi il futuro mi ha sempre incuriosito, anche se non sono un tipo tecnologico. Mi piace osservare, immaginare».

La comicità, oggi, può ancora raccontare l’attualità senza diventare una predica?

«È proprio questo il rischio. Quando si fa un monologo o un testo, si può cadere in quello che io chiamo “il ditino”: quello che ammonisce, che dice “adesso vi spiego io come va il mondo”. Ma noi comici siamo persone normali, con le stesse gioie, dolori e sbagli degli altri. Mi piace raccontare la realtà partendo da me stesso, senza giudicare. Se prendo in giro qualcuno, è su cose che faccio anch’io. È più onesto, e fa ridere di più».

Oggi però bisogna fare i conti anche con il politicamente corretto. Quanto è difficile far ridere senza offendere nessuno?

«È un tema che va avanti da anni. Io sto un po’ nel mezzo. È vero, a volte c’è troppa prudenza: non puoi fare una battuta sulle donne o sugli omosessuali senza timore di essere frainteso. Nel mio spettacolo ho una battuta sulle donne e, glielo dico, ho sempre un po’ d’ansia nel farla. Ma non è la battuta in sé il problema: conta il gusto con cui la fai. Se c’è cattiveria o mancanza di rispetto, non funziona. Ma se la fai con delicatezza e intelligenza, può essere perfino inclusiva. Fingere di non vedere certe cose è una forma di ipocrisia».

Lei è in scena da decenni. È cambiato il suo modo di costruire uno spettacolo, anche dal punto di vista emotivo?

«Sì, ma la chiave resta la stessa: parto sempre da me. All’inizio mi chiedevo se le cose che facevano ridere me avrebbero fatto ridere anche gli altri. Oggi so che quel tipo di comicità è quello che il pubblico si aspetta da me. Con l’esperienza ho imparato a capire che cosa posso dire e come. La differenza la fa sempre il modo in cui presenti una battuta: la puoi rendere felice o infelice, ma è l’interpretazione che la fa vivere».

C’è un libro, «Opinioni di un clown» di Heinrich Böll, in cui il protagonista non riesce più a far ridere perché è triste. Capita anche a lei di fare i conti con un lato malinconico?

«Certo. Tutti abbiamo delle ferite, e chi fa il mio mestiere forse le usa più degli altri. Nella mia vita ne ho avute, anche da ragazzo, e credo che mi abbiano aiutato a trasformare il dolore in qualcosa di diverso. Le ferite restano dentro, e anche se pensi di nasconderle, gli altri le percepiscono. Ma se riesci a trovare la chiave giusta, diventano una forza. Io ho imparato a trasformarle in divertimento. In fondo, ridere serve anche a quello».

Guardando avanti, c’è qualcosa che le manca o che vorrebbe ancora realizzare?

«Sì, mi piacerebbe fare una commedia musicale sullo stile di Garinei e Giovannini, ma più moderna. Un’opera che unisca musica, comicità e una bella storia, con suoni e linguaggi di oggi. Vorrei collaborare con musicisti e cantanti per creare uno spettacolo che emozioni e faccia ridere insieme. È un sogno che inseguo da tempo, e credo che il pubblico sarebbe pronto per qualcosa del genere».

Il film in cui si è divertito di più a recitare?

«Direi Ti amo in tutte le lingue del mondo di Pieraccioni. Mi sono divertito tantissimo. Anche Sms – Sotto mentite spoglie, con Salemme, è stata un’esperienza bellissima. Non solo per il set, ma perché con i colleghi c’era una vera collaborazione: si discuteva insieme, si proponevano idee. E quando l’ambiente è così, il divertimento si vede anche sullo schermo».

Com’è lavorare con Leonardo Pieraccioni?

«Bellissimo. Lo stimo molto. L’amicizia tra noi – e anche con Carlo Conti – è sincera, ma non basta: bisogna anche riuscire a lavorare bene insieme. Tra amici può capitare l’invidia o la divergenza di opinioni, ma con Leonardo no. Quando mi dà un consiglio so che lo fa per il bene dello spettacolo, non per sé. E questa fiducia è un privilegio raro».

Che legame ha con la Puglia?

«La frequento da quando ero ragazzo, quando facevo i miei primi spettacoli nelle piazze, alle feste patronali. Ho tanti amici pugliesi: Checco Zalone, Gennaro Nunziante, Toti e Tata. Molti dei miei autori vengono da lì, e con loro ho sempre lavorato benissimo. Hanno un umorismo unico, e i successi di Zalone lo dimostrano».

E amori pugliesi?

«Sì, anche quelli. Ho avuto una storia con una ragazza salentina. Quattro anni insieme: mi ha insegnato tutto, dal dialetto alle piccole abitudini quotidiane. È una terra splendida, e io lì ho lasciato un pezzo di cuore».

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