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I Nomadi live a Bari, Beppe Carletti: «L’identità del gruppo preservata dai fan» – L’INTERVISTA

C’è una costante nella storia dei Nomadi che attraversa i decenni: l’idea che un gruppo sia prima di tutto un legame. Beppe Carletti lo ripete senza enfasi, come una verità che non ha bisogno di essere difesa. Quel legame ha il volto di Augusto Daolio, l’amico di sempre con cui ha condiviso trent’anni di vita…
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C’è una costante nella storia dei Nomadi che attraversa i decenni: l’idea che un gruppo sia prima di tutto un legame. Beppe Carletti lo ripete senza enfasi, come una verità che non ha bisogno di essere difesa. Quel legame ha il volto di Augusto Daolio, l’amico di sempre con cui ha condiviso trent’anni di vita e di strada, prima che la sua morte, nel 1992, lo costringesse a decidere se fermarsi o continuare. A convincerlo furono i fan, la «gente» come la chiama lui: la stessa che da allora accompagna i Nomadi in ogni tappa, trasformando i concerti in un appuntamento collettivo che somiglia più a una rimpatriata che a un concerto.

È dentro questa fedeltà reciproca che si colloca un debutto inatteso: il primo concerto della band al Teatro Petruzzelli di Bari. Non un traguardo tardivo, ma una nuova tappa di un percorso che non ha mai cercato scorciatoie. Accadrà sabato, alle 20.30, in un live organizzato da Aurora Eventi.

Che significato ha per voi debuttare in un teatro come il Petruzzelli?

«È emozionante già solo pensarci. Ho sempre sentito parlare del Petruzzelli e arrivarci oggi, dopo sessant’anni di carriera, per me è un orgoglio vero. È un teatro che qualifica: non ci vanno tutti. Sapere che il nostro tour teatrale parte da lì mi riempie di soddisfazione».

Qual è la novità principale di questo spettacolo?

«Lo abbiamo diviso in due tempi: un primo tempo acustico e un secondo elettrico con i nostri successi. La parte acustica è piaciuta molto. Per me la data in Puglia ha davvero un peso particolare: il Petruzzelli, lo dico sempre, è un po’ la Scala del Sud».

Ricorda l’ultima volta che è stato a Bari?

«È passato tanto tempo: ci siamo stati per un concerto in piazza. Bari è una città che conta, quasi una capitale del Sud».

Dopo dieci anni siete tornati a incidere un disco live. Perché ora?

«Perché la nostra storia è stata un’evoluzione continua, anche per via dei cambi di cantante. Con Yuri Cilloni abbiamo trovato un equilibrio pieno: ha una voce bella, interpreta bene il repertorio e si è inserito subito. Il live è stato anche un modo per valorizzare il suo ingresso: interpretare i brani di Augusto è una responsabilità, e lui l’ha affrontata nel modo giusto».

La morte di Augusto, nel 1992, fu un momento durissimo. Come lo ha vissuto?

«È stato l’anno più difficile della mia vita: cinque mesi prima era morto anche Dante Pergreffi, il bassista. Con Augusto avevo condiviso trent’anni. La paura più grande era rovinare la storia costruita insieme. Ad aiutarmi è stato il pubblico: è stata la gente a volerci ancora in piedi, per ricordarlo. E poi ricordavo le parole di Augusto, diceva che sarebbe stato bello se i Nomadi potessero continuare anche senza di noi».

Che cosa le manca di lui?

«La quotidianità. Anche quando non si suonava, Augusto passava sempre da me: due chiacchiere, un pranzo, una sigaretta. Era un rapporto speciale. Non ha mai pensato a una carriera solista: per lui il gruppo era la famiglia. Aveva una presenza scenica straordinaria, ma non ha mai voluto staccarsi».

Avete cambiato diversi membri nel tempo. Come si preserva l’identità del gruppo?

«Ho sempre continuato a chiedermi: Augusto avrebbe scelto questa persona? I nuovi arrivati hanno capito il ruolo, e chi non se la sentiva andava per la propria strada senza traumi. La nostra fortuna è sempre stata il pubblico: ci sostiene ovunque».

È il pubblico, dunque, il custode della vostra identità?

«Hai fatto centro. Alla fine di ogni concerto si ritrovano, come in un bar: “Ci vediamo al prossimo”. È un legame raro. Significa che non li abbiamo delusi».

Una delle canzoni simbolo della vostra storia è «Io vagabondo». Avevate intuito la sua vera forza?

«No. Negli anni Ottanta l’avevamo persino tolta dal repertorio: l’epoca della disco non aiutava. Poi Fiorello l’ha rilanciata con il karaoke e da lì è ripartita come nel ’72. Lo ringrazio davvero per questo. È diventata una bandiera. Alle feste di piazza la chiedono sempre: dico scherzando che, se non la facciamo, non ci pagano».

Siete sempre stati coerenti, anche quando la moda suggeriva altro.

«Sì. Non abbiamo mai inseguito i trend. Se interpreti “Dio è morto” non puoi salire sul palco e fare coreografie da discoteca. La nostra forza è stata la coerenza: non saremo i più bravi, ma siamo rimasti fedeli a noi stessi».

A proposito di «Dio è morto», quando avete incontrato Guccini era ancora un ragazzo sconosciuto. Che ricordo ha dei primi tempi?

«Sconosciutissimo. Non aveva la patente, andavo a prenderlo in stazione e lo portavo da noi per lavorare ai pezzi. Con lui ho ricordi bellissimi. Siamo stati fortunati: abbiamo avuto tra le mani sue canzoni che sono diventate fondamentali. Il rapporto è sempre stato di grande rispetto».

C’è una collaborazione mancata a cui pensa ancora?

«No, perché abbiamo avuto il massimo. Le racconto solo un episodio: mentre incidevamo «Dio è morto» in una chiesa sconsacrata a Milano, Mogol ci portò Battisti che ci fece sentire “Non è Francesca”. Era splendida. Ma Mogol ci chiese di fare un intero album solo di Battisti, abbandonando ciò che stavamo registrando. Da una parte c’era Guccini, dall’altra Battisti. Abbiamo scelto Guccini. E non me ne sono mai pentito».

Dopo una carriera così lunga, dove si vede con i Nomadi domani?

«Sento di avere già avuto tantissimo. Non posso chiedere di più. Bisogna sapersi accontentare (sorride, ndr)».

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