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Nietta Tempesta, 91 anni e da 73 anni sul palcoscenico: «Ho ancora tanto da realizzare»

Sale sul palcoscenico da settantasei anni, è talentuosa, rigorosa, colta, tenace e, insieme a suo marito Eugenio D’Attoma, ha fatto larga parte della storia del teatro di Bari. Lei è Nietta Tempesta, 91 anni, tanti i ricordi da raccontare ma anche molti progetti da realizzare. La signora dai capelli rossi e dalla frangia inconfondibile è…

Sale sul palcoscenico da settantasei anni, è talentuosa, rigorosa, colta, tenace e, insieme a suo marito Eugenio D’Attoma, ha fatto larga parte della storia del teatro di Bari. Lei è Nietta Tempesta, 91 anni, tanti i ricordi da raccontare ma anche molti progetti da realizzare. La signora dai capelli rossi e dalla frangia inconfondibile è impegnata in questi giorni con lo spettacolo “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde per la regia anche di Maurizio Sarubbi e le scene di Claudio Farina. L’appuntamento è sabato 21 e domenica 22, nello storico “Piccolo Teatro-Eugenio D’Attoma”, in strada Borrelli.

Partiamo proprio da questo luogo memorabile che ha rappresentato un fulcro del teatro in vernacolo barese e che ha contribuito a formare nel tempo registi, attori rinomati come Mario Mancini e maestranze qualificate. Nietta, qual è la prima cosa che le viene in mente quando pensa al suo “Piccolo Teatro”?

«Mio marito Eugenio, il fondatore, l’unico e grande amore della mia vita. Un sodalizio artistico e sentimentale iniziato da giovanissimi su altri palchi della città e durato fino alla sua scomparsa. Da qualche anno il mio Teatro è una cooperativa, un’associazione con tesserati ma conserva ancora il suo valore e mi preme sottolineare che è stato il primo gruppo che abbia ottenuto il riconosciuto dal Ministero del Turismo e dello spettacolo, nel 1981».

La sua vita è quindi indissolubilmente legata all’artista D’Attoma ma lei come ci è capitata in questo mondo?

«Avevo 17 anni e frequentavo una scuola per diventare sarta. Divenni amica della figlia della mia titolare e fu proprio lei, in un giorno come tanti altri, a convincermi ad andare a vedere uno spettacolo nel cine-teatro “Casa del Soldato”, alle spalle della Caserma Picca. Dopo tre mesi ero già sulla scena ed ero considerata come “particolarmente brillante».

Erano gli anni del dopoguerra, immagino i sacrifici per farsi strada in questo ambito.

«Tempi duri, nel ‘45; non c’era un bel niente e andavamo a provare nelle cantine, negli appartamenti, in ogni dove. Io, Eugenio e Mancini, spinti solo dalla passione per la recitazione. La nostra prima compagnia fu “Prometeo”, nel ’51 e giravamo come trottole dove si poteva, dal Circolo Unione al teatro della Stanic»

Il momento della svolta quale fu?

«All’albergo delle Nazioni, dal 1957 al 1963, con il “Teatro circolare”. Devo un grazie al direttore dell’epoca, un trentino di larghe vedute. In quel periodo vinsi il premio come migliore attrice e poi mi fermai, rimasi incinta di mio figlio Stefano, la persona che oggi cura gli interessi del “Piccolo Teatro”».

E a quel tempo avevate un sostegno dall’amministrazione?

«No, nemmeno quando portammo a Reggio Emilia la commedia di successo “L’Allodola” di Jean Anouilh e il sindaco del Nord si complimentò con quello di Giovinazzo, Vitantonio Lozupone. Per intenderci, mio marito impegnò la sua macchina Bianchina per avere soldi. Ma lasciami dire che anche oggi non abbiamo sostegni e siamo costretti a fittare il Teatro».

I momenti invece più emozionanti?

«Direi quello del sodalizio con Paola Borboni con la compagnia “Stabile”, prima di approdare all’Albergo delle Nazioni. Ricordo con lei spettacoli come “Notte di sangue” di Garcia Lorca. Fu un anno intenso, quello del ‘57».

Se ora cito “Jarche Vasche” di Vito Maurogiovanni con la regia di Michele Mirabella, lei cosa mi risponde?

«Un’esplosione di applausi. Quarantacinque anni di palcoscenico anche per “Jarche Jalde” di D’Attoma».

A proposito della lingua, il dialetto barese, sul palco, ha fatto la differenza?

«Un tempo i baresi si vergognavano del dialetto; Lino Banfi, per esempio, veniva criticato. Con noi i cittadini si sono invece immedesimati, nella dimensione di un linguaggio non volgare ma autentico, vero e non italianizzato».

Lei partiva vantaggiata?

«No, non parlavo dialetto e ho dovuto studiare tanto; suoni, espressioni, tutto».

Tanti i successi, i premi, i corsi di teatro da lei diretti e tante le strette di mano autorevoli che si è scambiata nel tempo, come quelle con Sandro Pertini o Antonio Segni. È una sorpresa?

«Scoprire, solo dopo la morte, che Eugenio stava lavorando ad un testo “La Sciammerghe”. L’abbiamo “tirato fuori dal computer” e gli “abbiamo dato vita” nel ‘97. Fu un grande successo. Vorrei chiudere la mia attività con questo spettacolo, anche se per me, dopo un incidente al femore, è faticoso; una trama drammatica ma anche molto attuale purtroppo».

Mercoledì 18, alle 17,30, al Piccolo Teatro, Giuseppe Cascella, presidente della commissione Cultura del Comune di Bari, consegnerà una targa per le “Eccellenze di Bari”, in ricordo di attori come D’Attoma, Piripicchio e Mario Mancini.

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