Lino Banfi a Castellana Grotte: «Il cinema? Non c’è più spazio per il politicamente scorretto» – L’INTERVISTA

«Stavo prendendo il treno ieri, arrivando per errore in Puglia il giorno prima dell’evento. Ma non sono rincoglionito, c’è stato un disguido nella comunicazione…». Così, strappando un sorriso, Lino Banfi inizia l’intervista che ci concede, in presentazione dell’evento che lo vedrà protagonista a Castellana Grotte stasera, alle 21, in piazza Nicola e Costa.

Aneddoto: un giovanissimo Lino Banfi lascia Canosa con altri compaesani, direzione Milano, in cerca di fortuna…
«Avevo diciassette anni. Tutti partivano con la famosa “valigia con lo spago”. Io ci mettevo un foulard, per essere chic. Ma restava una valigia di merda. Arrivati a Milano, noi ancora studenti, venivamo scelti per fare i parcheggiatori abusivi. A me toccò via Broletto, vicino al duomo. Pagavamo una tangente per poter lavorare, ci tagliavano le fodere delle tasche così da non poterci tenere i soldi. Ma io li fregavo lo stesso, li nascondevo nelle mutande».

La sua è stata una carriera lunghissima, perché ha scelto di fare l’attore?
«Ci sono nato. Da bambino ho vissuto la guerra, mio nonno Giuseppe mentre scappavamo dalle bombe mi diceva “arrecurdete u pepàzze” (ricordati il pupazzo ndr), due fantocci fatti con la mollica di pane indurita che usavo come marionette per far divertire gli amici. Avevo 8 anni e lì inventai il mio “Ti spezzo la noce del capocollo, disgrazieto maledetto”. Già dall’età di 8 anni volevo far ridere gli altri. Mi chiedo oggi, a 87 anni: “A me chi chezzo mi ha fatto mai ridere?”. Tutte le mie tristezze, i guai, i debiti, le notti passate a dormire nei portoni…».

Oggi, chi la fa ridere?
«Checco Zalone. Lui sa fare questo mestiere. Quando capita qualcosa che mi piace rido ancora come un bambino, ma non guardo spesso cose comiche. Mi rattrista vedere in tv giovani che potrebbero fare di più, la vita non è andare in apnea, trattenere un lungo respiro e usare il “vaffanculo” per dar senso a 4 minuti di sketch. Da questo a fare un film o qualcosa di valido ci passa un mondo. Oggi è pieno di show, di influencer. Per me dopo gli influencer ci sono la “bronchiter” e la “broncopolmoniter” (ride ndr)».

Pensa che in quest’epoca di social imperanti, tutti pronti a tutto per la notorietà, sia più facile emergere?
«Può essere più semplice ma rende tutto più pericoloso. Immagina che è tutto uno stare su una scogliera per fare un video, girarsi e cascare morendo come uno stronzo. Bisogna stare attenti, non si vive solo di queste cose. Non si può pensare che se un altro è riuscito a sfondare possano farlo tutti».

Provare la carriera artistica è sempre un lancio di moneta. Se non ce l’avesse fatta, quale sarebbe stato il suo mestiere oggi?
«Il chirurgo. Mi ha sempre appassionato guardare gli interventi, qualche amico chirurgo quando vado a trovarlo mi fa assistere. Ma come ti ho raccontato, il mio destino è stato sempre far ridere».

Lei ha incontrato Totò che l’ha spinta a cambiare il suo nome in Lino Banfi…
«Lesse un biglietto di raccomandazione scritto da un impresario suo amico e disse: “Ah, fai l’avanspettacolo, e come ti chiami?” E io: “Pasquale Zagaria, in arte Lino Zaga”. E lui: “Non va bene, cambialo”».

Come mai?
«Glielo chiesi anch’io. Rispose: “Abbreviarsi il nome porta buono, guarda me che mi chiamo Antonio. Ma se abbrevi il cognome porta malissimo”. Dopo pochi giorni avevo uno spettacolo andai dal mio impresario e dissi “Togli Zaga dai manifesti”. “E cosa ci metto?” “Quello che vuoi basta che mi paghi” gli dissi. Allora lui, maestro elementare, prese un registro di classe e lesse il nome di un alunno alla prima riga: “Aurelio Banfi”. Così è nato Lino Banfi».

Lei ha lavorato con attrici bellissime, non ha mai avuto qualche tentazione sul set?
«Certo che sì. Ma la mia intelligenza è stata quella di evitare, il mio garbo di non chiedere. Erano donne corteggiatissime da attori belli e famosi, non volevo perdere la credibilità nel mio ambiente. E poi ero felice con mia moglie».

C’è ancora posto per una comicità indipendente dal politicamente corretto?
«Non credo. Peccato però, perché sarebbe bello fare ancora qualcosa di provocatorio. Ho tante volte interpretato personaggi omosessuali stupendamente esagerati, funzionava. Se la fai oggi una cosa del genere vengono sotto casa per ucciderti».

C’è ancora una diffidente visone radical chic verso la sua comicità?
«Se c’è ancora qualcuno che la pensa così pian piano se ne farà una ragione. Solo quelli di Bari credono che abbia rovinato l’idioma barese (sorride ndr). Tanti critici negli anni mi hanno stroncato prima, scrivendo poi delle cose meravigliose su di me».

Mi racconta il suo prossimo progetto?
«Sarà a Bari a settembre. Gireremo al “Petruzzelli” il docufilm sulla mia vita. Meglio farlo presto, finché sono ancora vivo (ride ndr)».

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