Qualcosa riemerge dal fondo: «Limonov» di Kirill Serebrennikov inaugura il trittico dedicato alle «Geografie contemporanee» di Apulia Film Commission. Oggi a Taranto, nello Spazioporto-Cineporto, poi domani alle 20.30 a Bari (Showville), Brindisi (Cinema Impero), Foggia (Sala Farina) e Lecce (Cineporto), il poeta bandito di Mosca torna a incrociare sguardi italiani. In sala — gratuitamente, fino a esaurimento posti — ci si troverà davanti alla storia di un ribelle narrato, mitizzato, negato, e adesso riconsegnato alla curiosità di chi non lo aveva mai incontrato.
Non torna solo un film: torna uno che spacca il pubblico, seduce, irrita, ti fa alzare un sopracciglio e poi ti costringe a guardarlo ancora. Uno che non si lascia archiviare. E che, proprio per questo, continua a bussare alla porta del presente.
Quando Emmanuel Carrère nel 2011 pubblicò «Limonov» (Adelphi), disse che la vita del poeta non raccontava solo lui, ma la storia di noi tutti dopo la seconda guerra mondiale, riconoscendo la potenza di una biografia che travalica la persona. Nato Eduard Veniaminovich Savenko a Charkiv, e ribattezzatosi «Limonov» per un gioco doppio — limone, ma anche limonka, la piccola granata sovietica —, è stato poeta della Mosca sotterranea, emigrato negli Stati Uniti, maggiordomo a Manhattan, scrittore celebrato a Parigi e poi militante radicale nella Russia post-sovietica: una figura che attraversa continenti e contraddizioni con una voracità quasi teatrale. Perché Limonov — come Carrère intese — non era invenzione: era un test per misurare il nostro tempo.
Il libro in prima persona
L’autore francese non scrisse un romanzo, romanzò una biografia mettendosi in scena. Ne nasce un doppio dispositivo: racconta Limonov, ma racconta anche cosa significhi guardarlo. Perché l’eroe teppista — idolo punk a Parigi, barbone a Manhattan, miliziano nei Balcani, profeta della rivoluzione arancione, leader nazbol — sfugge alla moralità semplice. Nel libro Carrère confessa la fascinazione e il disgusto, e il lettore assiste allo sforzo di capire un uomo che «si vede come un eroe ma può essere considerato anche una carogna». Decide: non giudico, guardo, e in questa sospensione nasce la sua cifra narrativa, quella voce leggermente ipnotica che procede come un’indagine privata. Limonov diventa così il negativo fotografico di chi scrive, e allo stesso tempo un effetto speculare del lettore occidentale: ci attira perché è tutto ciò che non riusciamo a essere. Il film, al contrario, deve scegliere. Serebrennikov fa un’opera barocca, ritmica, punk: accelera la fame di gloria, taglia la complessità politica, punta sul desiderio di essere ovunque contro qualcosa. Qui sta la differenza: la letteratura interroga, il cinema incarna.
Il film in terza persona
Ben Whishaw interpreta Limonov come rockstar autodistruttiva; Serebrennikov preferisce l’opera al documento. Lo fa oscillare tra nichilismo e amore tragico, enfatizza l’eccesso — sesso, musica, brama di potere — e svuota i silenzi che nel romanzo sono fondamentali. In compenso, restituisce il movimento permanente: Limonov corre, si reinventa, implode. Il risultato è la costruzione di un «terzo Limonov»: un ibrido che vive di cinema. Il film, insomma, crea un Limonov che non appartiene più nemmeno a sé stesso, diventando personaggio puro, spettacolo, icona pop. È il destino beffardo del poeta che voleva esistere come scandalo: oggi esiste anche come estetica. Se il libro rende complessa la posizione morale — e ci dice che quell’uomo è insieme poeta, criminale, seduttore, militante, vittima e carnefice — il film elimina le zone grigie e fa esplodere le pulsioni. Serebrennikov è interessato al combustibile narrativo, non alla sua chimica.
Risonanze dell’oggi
Perché tornarci ora? Perché questo ritorno cinematografico — in un ciclo dedicato alle geografie contemporanee — accade in un momento in cui le geografie morali e politiche dell’Europa orientale sono tornate incandescenti. Il conflitto in Ucraina, il putinismo, la trasformazione del dissenso in spettacolo: sono scenari che Limonov, più di molti altri, aveva attraversato prima di noi. Carrère nel libro racconta se stesso in Russia, a contatto con dissidenti veri, giornalisti assassinati, oligarchie tranquille sul proprio cinismo. Il Limonov della pagina diventa chiave per leggere un mondo dove la verità è una categoria estetica più che etica, dove essere rivoluzionari può essere mestiere, carriera, desiderio.
Serebrennikov lo sa. Anche lui esule, anche lui nemico del potere russo, compie nel film un gesto: fa di Limonov un Joker russo, reduce che risorge a ogni mutazione. Per questo le proiezioni pugliesi sono più di un evento culturale: sono un ritorno di domanda aperta. La biografia romanzata di Carrère — che «non ha perso nulla della sua bruciante attualità» — oggi trova un’immagine che non la risolve. Non spiega Limonov, lo moltiplica. E ci dice qualcosa su di noi: siamo guardanti e complici, affascinati da chi trasforma la vita in narrazione. Film e romanzo si parlano così: l’uno mette in scena la maschera, l’altro la smaschera e scopre che sotto c’è soltanto un’altra maschera. Forse per questo vale la pena tornare a Limonov, non per capire chi era, ma per riconoscere in lui un paradosso essenziale del mondo di oggi, quello in cui la vita è già letteratura, e la letteratura è già cinema, e nessuno di noi sa più dove finisce il personaggio e inizia la persona.