“Vermiglio” è il film italiano del momento. Un Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia, una candidatura all’Oscar e, più recentemente, il premio come “Miglior film” alla 60esima edizione del Chicago International Film Festival. A raccontarlo è Tommaso Ragno, attore pugliese, che di questo piccolo gioiello è uno dei protagonisti. Quella con Ragno è più di un’intervista. È una passeggiata nel suo processo creativo, un richiamo all’eco di esperienze che animano il suo lavoro.
Vorrei partire dal successo che sta riscontrando Vermiglio. Era qualcosa che si aspettava quando avete iniziato le riprese?
«Non mi aspetto mai niente, se non di fare bene il mio lavoro. Quando poi il film arriva agli occhi del pubblico, prende vita propria. Non aspettavo nemmeno il premio ricevuto alla Mostra d’arte cinematografica che, ci tengo a sottolinearlo, è una mostra».
Perché ci tiene a fare questa precisazione?
«Una mostra d’arte cinematografica è molto diversa da un premio, come l’Oscar. Concettualmente è molto più simile a una mostra di pittura. Come se a Venezia fosse esposto Bacon. La giuria è sicuramente un fattore, e quest’anno era composta da figure leggendarie del cinema, come Tornatore. Avere quegli occhi specifici a guardare il film ha confortato anche Maura (Delpero ndr), al di là del risultato. A conti fatti, un film come Vermiglio è esso stesso un premio per il pubblico: si è dato un premio al “premio”. Oltre a mettere in evidenza quello che c’è dietro il risultato finale».
Conta il percorso, insomma.
«Sì. Perché al pubblico arriva il film come fatto finale. Se sono al ristorante, non vado a chiedere se il piatto d’orecchiette alle cime di rape è stato fatto con un olio piuttosto che un altro. Come spettatore, per me non è necessario conoscere quello che c’è dietro il prodotto. Ma lo è per la comunità di persone che si raduna attorno a una mostra d’arte cinematografica. E non dico questo perché ritenga l’Oscar meno importante del Leone d’argento. Questo film ha una sua esistenza, al di là di tutto. Una produzione senza stelle o nomi di richiamo: la star del film è il film stesso».
Un film che splende di luce propria, insomma.
«Dovrebbe essere sempre di più così. Anche Scorsese ha detto che fino a 15 anni fa bastava avere una star a fare il film. Oggi è diverso».
Credo Vermiglio non sia un film “facile”, immediato. Eppure sta attirando in sala tantissima gente, con un enorme successo al botteghino…
«Non lo ritengo un film “non facile”. E nemmeno difficile. Credo sia un film che ha i criteri per portare tante persone al cinema, pur magari non piacendo a tutti. Ed è giusto così, sarebbe sospetto se mettesse tutti d’accordo. A volte si legge “Il film che ha messo tutti d’accordo”, ma rispetto a che cosa? Un film non deve mettere d’accordo ma suscitare discussione, dialogo, domande. Le croste di pane del successo su cui ci si vuol sedere, non devono diventare un appoggio dal quale nessuno può dirti più niente. È più importante che questo film venga visto, piuttosto che soddisfi tutti».
Quanto è stato difficile per lei, pugliese, approcciarsi al dialetto trentino?
«Nascere in un posto non ti lega necessariamente a determinati ruoli o interpretazione. Non sono un genio, non c’è niente di magico. Si studia. Ho lavorato a fondo per amalgamarmi con i cosiddetti “non attori” del film – cioè quelli che non lo fanno di professione -, creando una sinergia che ha dato vita a qualcosa di autentico. Ho cercato di entrare nella realtà in cui ero chiamato a recitare, dimenticando la performance ma lavorando per diventare una persona credibile. La linea è sottile, ma scavalcarlo ti avvicina a un certo grado di verità».
Qual è il processo creativo che la avvicina ai suoi personaggi?
«Cambia di volta in volta. Si cerca di evocare qualcosa, che viene poi in qualche modo a cercarti. A volte per entrare in un personaggio serve un bisturi, altre magari un ago. Può essere fondamentale in questo la figura del regista, che del cinema rimane la figura più importante».
È vero che i ruoli che interpreti li vive come dei fantasmi quando li abbandona?
«Sono tutti dei fantasmi. Potremmo dire: “L’attore è un evocatore di fantasmi”. E in effetti, più o meno consapevolmente, è così».
E rimangono poi con lei, una volta superati?
«Ti rispondo con la storia del maestro zen che chiede all’allievo di andare a prendergli dell’acqua con uno scolapasta sporco e rugginoso. L’allievo, nonostante i tentativi, fallisce. Allora torna dal maestro dicendogli che è impossibile, l’acqua esce dai fori e non rimane niente. Il maestro allora gli risponde che non è inutile quello che ha fatto: anche se non è riuscito nell’intento, l’acqua ha pulito lo scolapasta rugginoso. È lo stesso per me quando interpreto un ruolo, li dimentico e vanno in un altro luogo. Se ne va via tutto, eppure resta un sedimento geologico che forma quella che si chiama “vocazione”. Ma è una cosa che viene molti anni dopo. Se viene. Potrebbe anche non venire mai. E non ha niente a che vedere col successo, ma con l’identità».
Ha lavorato con tanti registi importanti in carriera. Che rapporto ha avuto con loro?
«Ho costruito quasi sempre rapporti importanti. Con Maura, ad esempio, ho esplorato nuove modalità espressive. Il processo di un film sta anche nell’imparare delle cose nel percorso. E per farlo è augurabile avere una tale libertà dentro, che ti permetta di fare esperienze. Approcciarti al lavoro come se non avessi mai recitato, come se tu non avessi mai fatto il regista, ti fa guardare tutto con occhi diversi. Credo Maura abbia fatto questo. Non immaginavo di poter essere chiamato per fare un ruolo del genere, complesso, diverso da quello che sono abituato a fare. Ho scoperto la libertà, all’interno di regole molto forti».
In cosa si è sentito più libero?
«La libertà è un gioco, e nel gioco ci sono delle regole. Ero in un contesto in cui c’erano regole ben definite, e una regista con una prospettiva molto chiara. Questo ha creato uno spazio in cui muovermi».
Un po’ come nella musica jazz. Uscire dal tema – che è la regola – per esplorare con l’improvvisazione.
«È un ottimo esempio. Se ascolti jazz superficialmente sembra che ognuno faccia come gli pare. Invece c’è una linea, un filo misterioso e nascosto da seguire. E non serve essere musicisti professionisti per apprezzare il jazz, come non serve essere un attore per apprezzare il mio lavoro».
C’è una foto che ho visto per caso in cui lei è vestito come Alain Delon ne “La prima notte di quiete”…
«Fa parte di un film di Elisabetta Sgarbi che che esce alla Festa del cinema di Roma. È un richiamo voluto. Delon è un’icona di un’epoca perduta, un modo di fare cinema che oggi sembra svanito, un patrimonio di molti attori del Novecento. Parliamo di icone, di un’eredità che il cinema attuale fatica a mantenere».
Ci sono suoi colleghi, attori contemporanei, che considera un riferimento?
«Chiamarli colleghi, come nel caso di Robert De Niro, suona un po’ azzardato. Ma certo, sono figure di riferimento, attori che hanno segnato generazioni con il loro lavoro. Se dovessi citarne uno, ne dovrei menzionare altri. Peter Sellers è uno dei miei preferiti, non per un singolo film, ma per l’ampiezza della sua arte. Se fossi un pittore, parlerei di artisti del Rinascimento; per me, il cinema è come un’arte giovanissima che esplora ancora le sue potenzialità»
Certo, ha solo poco più di cento anni.
«Esattamente. È un’arte che ha già detto tanto, in cui lo spettatore rimane un bambino. Acquista un biglietto per entrare in un mondo che è adulto, ma dove la meraviglia e l’innocenza sono le chiavi di lettura. Questo mi fa tornare al concetto di mostra d’arte cinematografica: il cinema è un’arte adulta, e noi spettatori ci approcciamo con la curiosità di chi scopre. È sempre così, almeno per me».