Un Leone d’argento alla Mostra del Cinema, una nomination al premio Oscar. Se “Vermiglio” è stata la pellicola che ha incantato Venezia, un inchino – doveroso – va fatto alla regista trentina Maura Delpero. Un film che è una coperta di lana grezza, punge ma è tanto caldo. Inafferrabile, ruvido come una boccata di tabacco secco.
Come ha scoperto della candidatura all’Oscar di “Vermiglio”?
«È arrivata una telefonata della commissione: voci allegre che erano contente di darmi questa bella notizia. Di solito non rispondo ai numeri che non conosco, infatti c’era il mio ufficio stampa che mi diceva “rispondi, rispondi!” (ride ndr)».
Come ha reagito?
«Aspettavo la chiamata nel pomeriggio, invece è arrivata la mattina, prendendomi un po’ in contropiede. Questo ha reso il momento ancora più bello».
Magari era a fare la spesa…
«Ero dall’osteopata (ride ndr)».
Parliamo dei luoghi del film, fuori dal solito circuito produttivo. Mi racconti della scelta.
«Sono contenta di aver mostrato una parte d’Italia poco raccontata. È stata una scelta di cuore, il film trae ispirazione dalla famiglia d’origine di mio padre, che era di lì. Ho recuperato i luoghi della mia infanzia. Quella “montanarità”, quel carattere, andava necessariamente filmato in loco. Non è stato facile, ma ho scelto di rimanere aderente all’ispirazione».
C’è un po’ il fantasma di suo padre in questo film?
«Lui era scomparso da poco, e mi sono ritrovata con le carte sparigliate. Ho sognato mio papà e ho scelto di guardare indietro, per andare avanti. Ho sentito la necessità di scavare, di guardare nella storia delle donne prima di me, raccontando un periodo storico che, per quanto lontano, rimane un passato recente, che dialoga molto con il nostro tempo».
Parlando dell’aspetto linguistico, ha lavorato con Tommaso Ragno che è pugliese. Come si è adattato l’attore a parlare un dialetto complicato come il trentino?
«L’avevo visto poco tempo prima recitare in pugliese e mi sembrava perfetto (ride ndr), mentre il trentino gli era ovviamente più lontano. Sapevo però che Tommaso aveva avuto una lunga esperienza in Lombardia, e che sapeva adattarsi a vari accenti. Ha studiato, abbiamo provato e ha avuto poi l’avvallo dei vermigliani: hanno visto il film confermando che ha fatto un gran bel lavoro».
Il film è un po’ il ritratto di un’Italia patriarcale?
«Lo è. Già dalle prime immagini c’è la scena di una colazione in cui il padre siede, leggendo, servito da una donna in piedi che serve tutta la famiglia. La cosa interessante del cinema è proprio questa: un’immagine sintetica può raccontare un mondo».
È una scelta che mira a raccontare qualcosa di attuale?
«Sicuramente ci interroga. Ho sentito una spettatrice dire “mi sarebbe piaciuto sentire più lontana questa rappresentazione di patriarcato”. Poi ovviamente dipende se si vuole guardare il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. La figura della madre nel film si ispira a quella di mia nonna. E se penso che ci sono appena due generazioni tra me e lei, vedo un abisso.
D’altra parte, credo che in maniera sotterranea ancora viviamo il risultato di quel patriarcato».
Ho ritrovato qualcosa di Ermanno Olmi nel suo film…
«Sicuramente è un autore che amo moltissimo e che stimo. Ha contribuito alla mia formazione. Credo ci sia una vicinanza nell’approccio umano e scenografico che abbiamo alla materia. Lavorare sul posto, scegliere attori, anche non professionisti, che abbiano quelle facce, quella cultura, quel modo di muoversi nel mondo che rispecchia una terra. Ma in “Vermiglio” si incontra soprattutto un mio linguaggio specifico.
Quali sono i registi che l’hanno formata?
«Oltre a Olmi, che giustamente citi, ho amato molto Bergman, Vittorio de Sica. L’asciuttezza di Haneke.
Lei si è formata all’estero, passando molto tempo in Sud America. Questo ha influenzato la sua sensibilità estetica?
«Sicuramente. Soprattutto umanamente. E facendo cinema viene fuori il tuo sguardo sul mondo. L’Argentina mi ha dato molto cinematograficamente. Nel Nuovo cinema argentino c’è un approccio, una creatività, un linguaggio che mi emoziona».
Quando ha acceso per la prima volta la macchina da presa, immaginava di arrivare dove è ora?
«È stato un percorso in salita, che non avrei mai potuto immaginarlo. Mi ha guidato un forte istinto, la necessità viscerale di girare. Ho imparato facendo, sul percorso. Tutto è nato dal cambiamento nella mia vita dopo la scomparsa di mio padre: mi ha cambiato il cuore».