«Mi piace il cinema che non racconta soltanto delle storie, ma che solleva anche molte domande dopo la visione, trasportando sullo schermo preoccupazioni, paure e problemi sociali di un determinato momento storico. E “Phobia” è un thriller che accende pure i riflettori sul tema della salute mentale». È Antonio Abbate, regista di soli ventisei anni originario di Foggia, a raccontare “Phobia”, la sua opera prima. Dopo essersi laureato nel 2019 alla “Roma Film Academy”, ha realizzato il cortometraggio a tematica sociale “Sottosuolo”, vincitore di diversi premi. Poi è diventato assistente personale del regista quattro volte candidato agli Oscar, Michael Mann, fino all’esordio con questo thriller.
Antonio Abbate, cosa rappresenta per lei l’esordio da regista?
«Ho avuto un percorso abbastanza lungo da aiuto regista e da assistente in tanti film per arrivare a dirigerne uno mio. È il completamento di una fase e l’inizio di una nuova».
“Phobia” è un trhiller legato a una misteriosa scomparsa. Quali sono i tratti essenziali del film?
«Nel cinema di genere, sin da quando esiste, ho sempre apprezzato la doppia funzione da un lato di intrattenimento leggero e disimpegnato e dall’altro di trasportare sullo schermo le preoccupazioni, le paure e i problemi sociali di quel momento storico. È questo il filo conduttore».
Anche “Phobia” segue questa direzione?
«C’è l’idea di portare avanti questo concetto attraverso il tema della salute mentale, che in questo momento più di altri credo sia qualcosa di cui si deve parlare. Il mistero della scomparsa, nel film, è legato all’interrogativo su cosa è reale e cosa non lo è. La possibilità di interpretare gli avvenimenti è un elemento importante nella concezione del film, perché avvicina al punto di vista della protagonista, che non sa se fidarsi nemmeno della sua percezione delle cose».
Tra le caratteristiche principali c’è proprio l’ambiguità, in una sorta di suspence in cui nessun esito è scontato. Qual è il valore aggiunto di questa visione non univoca?
«A me affascina molto il cinema che non racconta solo delle storie, ma solleva anche tante domande dopo la visione. Anche in “Phobia”, tutto è legato alla percezione di Chiara delle cose che avvengono intorno a lei. Da subito si sveglia questa sua psiche fragile. Non sappiamo fino a che punto fidarci o se è la sua famiglia a nascondere qualcosa».
C’è anche una valenza sociale?
«È chiaramente un thriller, ma penso sia importante inserire, anche in film che apparentemente parlano d’altro, elementi importanti di quello che succede all’interno della società. E credo che negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, la salute mentale sia un aspetto fondamentale di cui parlare, ancora molto stigmatizzato».
Veniamo al cast. Come nascono le sue scelte?
«Premetto che non ho i social network. È stata la produzione a presentarmi Jenny De Nucci, la protagonista, che invece sui social è seguitissima. E dal primo incontro ho capito che eravamo sulla stessa linea: era molto entusiasta di recitare in un thriller. Ed è affiancata da un attore come Antonio Catania, volto di film e serie che hanno segnato la storia del cinema italiano».
Lei ha ventisei anni, ma vanta già una larghissima esperienza. Quali sono i suoi segreti?
«Ho sempre saputo dove volevo arrivare e cosa volevo fare. Ovviamente, questo comporta anche sacrifici personali, ma se si è determinati abbastanza, alla fine qualcosa si concretizza sempre».
Possiamo riassumere in obiettivi chiari, gavetta e preparazione?
«Sì. E aggiungerei l’affrontare le cose con molta umiltà. Non bisogna mai sentirsi arrivati, ma avere sempre dei nuovi obiettivi da raggiungere».
È diventato anche assistente personale di Michael Mann.
«Si è creato un bel rapporto, che per me rimarrà sempre importante».
Cosa le ha trasmesso?
«Quello che mi ha colpito è che, nel momento in cui gira un film, nella sua vita non esiste nient’altro se non il film. E tanti capolavori che ha diretto non sono di certo nati casualmente, ma grazie a studio, preparazione e a uno sforzo notevole. È la lezione principale che mi ha trasmesso».
Lei è nato a Foggia, ma si è trasferito presto a Roma. Quanto è legato alla sua città natale?
«Ho ancora tantissimi affetti. Mi dispiace che non sia compatibile fare questo lavoro e vivere lì: per perseguire determinate carriere, bisogna spesso andare via dai centri più piccoli».
Le piacerebbe dirigere un film ambientato nella sua città?
«Assolutamente sì. E spero che nel futuro si possano proiettare più produzioni cinematografiche sul territorio. L’Apulia Film Commission sta facendo un lavoro notevole negli ultimi anni, vediamo come si proseguirà».