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Ghemon corre e combatte: il manuale motivazionale di un (ex) rapper ansioso

«La cosa più difficile è finire» non è solo il titolo di un capitolo buttafuori del nuovo libro di Ghemon: di più, è un insulto dolce-amaro alla pigrizia che ci portiamo dentro. Con la stessa spavalderia con cui sul palco si sfida il pubblico, l’artista di Avellino ci porta in un tour de force tra…
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«La cosa più difficile è finire» non è solo il titolo di un capitolo buttafuori del nuovo libro di Ghemon: di più, è un insulto dolce-amaro alla pigrizia che ci portiamo dentro. Con la stessa spavalderia con cui sul palco si sfida il pubblico, l’artista di Avellino ci porta in un tour de force tra rap, corsa, stand up comedy e sessioni di canto a colpi di dubbi amletici.

Sin dalle prime pagine, Ghemon sfodera il suo marchio di fabbrica: un’ironia tagliente che spoglia di ogni retorica la parola «motivazione». Si parte dalle resistenze iniziali – «Vorrei scrivere un libro, ma non so nemmeno con che frase iniziare» – per passare ai fallimenti gloriosi: mixtape autoprodotti, cd masterizzati in camera, venduti a mano alle serate. In questo memoir/guida, ogni esperienza personale diventa un cruscotto di consigli pratici, dalle pause premio («un biscottino per il cervello») al mantra finale «Se non vuoi, non puoi».

Sbagliare sì, ma con stile

Si ride quando Ghemon smonta la sacralità del talento: «A stare tanto tempo sul divano, si rischia di diventare bravi a stare sul divano». E si riflette quando paragona la costanza al ritmo regolare dei suoi 10 km in 55 minuti: «La media di tutti questi piccoli grandi estremi dice che io corro». Perché correre, come vivere, è l’unico antidoto alle ossessioni mentali che ti incollano al pavimento.

Tra un’autocitazione (Dash, Dixan, Winnys – i detersivi come metafora d’identità) e i riferimenti soul (Stevie Wonder, D’Angelo), Ghemon mescola i generi con la stessa audacia di un beatmaker che campiona Marvin Gaye e ci rappa sopra. Il suo «sottile filo rosso» è questo: cambiare prospettiva, senza tradirsi. Rinnovarsi restando se stessi. E poi ci sono le foto. Giganti, teatrali, spesso grottesche, sempre autoironiche. Ghemon ci mette letteralmente la faccia, e anche il fisico: lo vediamo bambino, crescere, correre, esibirsi, fissarci negli occhi con la stessa aria di chi ti dice «non so che sto facendo, ma continuo a farlo».

È solo pratica

Il pregio maggiore di queste pagine è l’onestà spiazzante: niente frasi fatte, ma fatica quotidiana e conversazioni con il dentro, con l’insicurezza. L’autore non fa promesse, non offre la panacea dei mali quotidiani. «Pensavi ci fossero pozioni magiche? No, non ce ne sono» scrive. Piuttosto invita a «fare, sbagliare, rifare», come se ogni capitolo fosse una scaletta live da perfezionare tra applausi e flop.

In un’epoca di Instagram motivazionale e guru improvvisati, Ghemon ci ricorda che la rivoluzione parte da chi non ha voglia, ma si alza lo stesso. Non serve un beat perfetto né una maratona intera: bastano poche pagine per scoprire che l’unico sprint che conta è quello verso noi stessi.

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