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Elio: «La comicità muore quando diventa educata» – L’INTERVISTA

C’è un filo che unisce Elio a quella stagione irripetibile in cui la canzone italiana era laboratorio e azzardo, ironia e disincanto. «Non c’entra la nostalgia - dice - ma il desiderio di riportare al centro autori che avevano una visione». Domani l’artista milanese sarà a Lucera, nell’ambito di Estate, Muse, Stelle promosso da Puglia…
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C’è un filo che unisce Elio a quella stagione irripetibile in cui la canzone italiana era laboratorio e azzardo, ironia e disincanto. «Non c’entra la nostalgia – dice – ma il desiderio di riportare al centro autori che avevano una visione». Domani l’artista milanese sarà a Lucera, nell’ambito di Estate, Muse, Stelle promosso da Puglia Culture, con «Quando un musicista ride»: sul palco, insieme a una band di giovani musicisti, il repertorio degli anni Sessanta, da Jannacci a Gaber, da Cochi e Renato a Flaiano e Fo.

Elio, porta in scena quei cantautori che hanno fatto la storia della parola prima ancora che della musica italiana. Da dove nasce l’idea?

«Questo è il naturale seguito dello show dedicato a Enzo Jannacci, «Ci vuole orecchio», che ho portato in scena fino all’anno scorso. La storia parte dalla mia passione per il cantautore, che ho sempre ascoltato, fin da bambino: mio padre era suo compagno di classe, per cui in casa se ne parlava spesso. E poi mi è sempre piaciuto moltissimo. Rappresenta quella parte di milanesità che sento di condividere: folle, visionaria, assurda, imprevedibile. Così, con i miei collaboratori, decisi di portarlo a teatro. Lo spettacolo ha avuto un successo inimmaginabile, è durato tre anni, con 150 repliche, e a Milano abbiamo riempito il Teatro Lirico per otto o nove sere consecutive».

E da lì l’idea di un seguito.

«Esatto. Io sarei anche andato avanti, ma il gruppo mi ha suggerito di pensare a qualcosa di nuovo. Così è nato «Quando un musicista ride», che è un po’ la continuazione del percorso iniziato con Jannacci: portare sul palco non solo lui, ma tutto il mondo intorno a lui. Ci sono Gaber, Cochi e Renato, i Gufi, e un cantautore completamente folle, Clem Sacco».

Negli anni Sessanta la musica era anche satira, e a volte feroce. Oggi sembra più “domesticata”: è cambiato il pubblico o sono cambiati gli artisti?

«Negli anni Sessanta c’era la censura – che oggi formalmente non esiste – ma c’era più coraggio. Penso che dipendesse anche dal pubblico. Quello che avrebbe dovuto essere il mezzo di liberazione assoluta, Internet, si è trasformato nel più spietato censore. Sui social si formano tribunali popolari velocissimi a emettere sentenze e a svanire subito dopo».

A lei è mai capitato di subire queste “tempeste digitali”?

«No, mai. E anche se accadesse non ne avrei paura. Certo, molti temono che possa danneggiare la popolarità, ma io credo che l’arte debba essere libera».

A proposito di libertà, parliamo di politicamente corretto. Secondo lei, ha un po’ stufato?»

«È nato con ottime intenzioni ma, come succede quando si arriva agli estremi, diventa un errore. L’arte dev’essere libera, soprattutto la comicità. Il comico non può essere educato, altrimenti non fa più ridere. Ci vuole buon senso, non ordini calati dall’alto. E se la chiami “educazione”, diventa subito accettabile».
Se gli Elio e le Storie Tese debuttassero oggi, sarebbe più difficile esprimersi come allora?
«Sarebbe stato più duro, ma credo che ci avremmo provato lo stesso. Come fanno i rapper, che non mi pare si preoccupino molto del politicamente corretto».

Mogol ha proposto multe per i testi violenti nel rap e nella trap. Lei che ne pensa?

«Non sono d’accordo. Il problema è un altro: il gusto del pubblico, che andrebbe educato, come accadeva fino a non molti anni fa. Oggi, al contrario, la gente è spinta verso la semplicità estrema: girano canzoni con pochissimi accordi, quasi imbarazzanti. L’arte dovrebbe elevare, non accontentarsi. Se dai a un bambino solo patatine fritte e hamburger, mangerà solo quelli. Ma se gli fai assaggiare un piatto più complesso, scopre altri sapori. Lo stesso vale per la musica. Nei miei spettacoli porto anche musica classica, lirica, spesso senza dirlo: faccio ascoltare arie d’opera che tutti conoscono, magari da una pubblicità, e non sanno di riconoscere Mozart o Rossini. È un modo per dire: non abbiate paura di ascoltare qualcosa di più complesso di quella roba che si sente ogni giorno».

Molti cantautori della vecchia guardia dicono che non resterà nulla della musica che si fa oggi. È così?

«Non credo sia proprio così. Io ho detto, e mi hanno attaccato per questo, che la musica italiana di oggi non esiste. Intendevo dire che non ha uno stile riconoscibile. Negli anni Sessanta c’era la scuola di Genova, quella romana, c’erano identità precise. Oggi no: ci sono imitazioni di generi internazionali, ma nessun suono che dica “questa è musica italiana”. Negli anni Sessanta c’era più voglia di raccontare. E se ascolti certe canzoni di Gaber o Jannacci ti rendi conto che oggi non potrebbero uscire senza un processo mediatico».

Un parere sulla polemica che ha coinvolto qualche settimana fa Valery Gergiev, il direttore russo a cui è stato impedito di esibirsi per le sue posizioni pro-Putin?

«Sono assolutamente contrario all’invasione russa dell’Ucraina, ma penso che l’arte debba essere libera. Ho lavorato con Gergiev, ho fatto con lui il Pierino e il lupo più bello della mia carriera. Facciamo arte, non guerra».

La comicità ha sempre un fondo di tristezza. Lei quanto è malinconico?

«Come tutti. Ho le mie fasi, certo. Ma quella del comico malinconico è un po’ una bufala. Il comico è un uomo come gli altri: alterna momenti di allegria e malinconia».
Nel suo percorso ha mai avuto la sensazione di non essere compreso?
«No dai. Sono felicissimo di quello che ho ottenuto. So che in questo mestiere ci vuole anche fortuna, e vivo ogni giorno come un regalo».

Una volta Jannacci ha detto che la musica è troppo seria per lasciarla ai musicisti…

«(Ride, ndr). Lui era incredibile».

Sei d’accordo, dopo quarant’anni di carriera?

«Amo tutto quello che ha detto Jannacci. Era come se fosse investito da una forza divina. Non l’ho mai frequentato, ma sono molto amico del figlio e di Paolo Rossi, che l’ha frequentato. Vivo immerso in questi racconti fantastici».

C’è una canzone che ha ascoltato pensando «questa avrei voluto scriverla io»?

«Più di una. Mi piace molto Aveva un Taxi nero, che cantavo nello spettacolo su Jannacci, e Quando il sipario…, scritta per Milva. A un certo punto, parlando dell’artista in scena, dice: “Pensate un po’ come vi pare, io ci ho provato con le buone». Bellissima. Il pubblico spesso dimentica che chi va sul palco è un pazzo che si butta lì come un kamikaze. Può anche andar male».

A lei, è mai andata male?

«All’inizio sì, quando nessuno ci conosceva. Poi, con gli anni, quando arrivi in un posto e sanno chi sei, è difficile che vada male».

Se potesse tornare indietro, darebbe un consiglio al giovane Elio?

«No. La bellezza sta nella sorpresa, nel non sapere cosa succederà. I primi anni sono stati i più belli: ogni passo era nuovo, imprevedibile, entusiasmante».

E se non avesse fatto questo mestiere?

«Sono laureato in ingegneria, lavoravo già in ufficio quando ho iniziato con il gruppo».

Quindi smentisce il mito dell’ingegnere che non fa ridere?

«È falso (ride ndr). Si confonde l’ingegnere con il ragioniere. L’ingegnere può fare qualunque cosa, e infatti ce ne sono in ogni ambito, anche artistico».

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