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“È stato un tempo il mondo”, parla Franco Arminio: «Scrivere è come tornare a casa» – L’INTERVISTA

Franco Arminio è un poeta che divide. Lo ami o lo odi. Anzi no, “odio” è una parola impropria. Lo ami o non lo leggi. Chi ha il palato fine, e un po’ di puzza sotto il naso, lo guarda con diffidenza, definendolo “pop”, rimproverandogli una certa furbizia: l’aver fatto della poesia un business. Come…

Franco Arminio è un poeta che divide. Lo ami o lo odi. Anzi no, “odio” è una parola impropria. Lo ami o non lo leggi. Chi ha il palato fine, e un po’ di puzza sotto il naso, lo guarda con diffidenza, definendolo “pop”, rimproverandogli una certa furbizia: l’aver fatto della poesia un business. Come fosse una colpa poi. Lo scorso 7 agosto Arminio è stato ospite della rassegna “PrimaVera al Garibaldi”, a Lucera, con lo spettacolo “È stato un tempo il mondo”. L’ho raggiunto al telefono qualche ora prima dell’evento e abbiamo parlato un po’, toccando vari temi.

Bisaccia, provincia di Avellino, paese dove è nato e che non ha mai lasciato. Qual è il legame con la sua terra?

«Recentemente ho scritto un aforisma rimasto inedito: “Questo è il mio paese, questo è il mio paesaggio, questa non è la mia gente”. Sento una adesione all’altopiano, alle nuvole, alle piante, al grano. Le persone invece sono cambiate, il paesaggio umano della mia infanzia non è lo stesso di oggi. Lì c’è l’incrinatura. Trovo casa dove c’è dialogo, incontro. La visione identitaria per me si rifà alla gente».

Ha mai pensato di lasciarlo il paese?

«No, non ricordo di aver mai organizzato la fuga (sorride ndr)».

È stato un limite, in quello che è il suo lavoro, la scelta di rimanere in provincia rispetto al salto nella grande città?

«Non credo. Per quella che è la mia poetica possiamo vederlo come un elemento di coerenza. Non ho mai sentito di perdere qualcosa rimanendo qui. Ho sempre vissuto la grande città come un “luogo per andare a fare cose”. Non ho simpatia per il mondo urbano: un aggregato di macchine e palazzi che ha un prestigio superiore ai propri meriti (ride ndr)».

Come è arrivata la poesia nella sua vita?

«Scrivo poesia da quando ho 16 anni. Una risposta spontanea alle inquietudini adolescenziali. Oggi è un mestiere, ci vivo. Ma non è una cosa che ho mai rincorso. Che fare quando nasci in un piccolo paese, se non scrivere, esprimerti; farti conoscere attraverso le parole. Forse ho avuto il merito di continuare, mentre tanti altri si sono fermati».

“Per Franco Arminio la poesia è soprattutto pregare…”

«È qualcosa che è venuto fuori negli ultimi anni. Un collegamento laico tra scrittura e preghiera. Non fraintendermi, non c’è niente di “confessionale” in questo…»

Lei è religioso?

«Non lo so (sorride ndr). Mi interessa pensare a Dio, al trascendente. Ma non vado in chiesa, se mi stai chiedendo questo».

La poesia è un’operazione intima. Come riesce a coniugarla con un reading pubblico?

«“Poesia” è una parola solitaria, che deve però rivolgersi a tutti. Serve scrivere in solitudine. Ma dopo l’esilio c’è voglia di tornare a casa. Questo è la scrittura, tornare a casa, e trovare tanta gente ad accoglierti».

Scrivere è tornare a casa insomma…

«Esattamente»

Gli autori che ammirava da ragazzino?

«Sicuramente Giorgio Caproni, un maestro. Ma potrei nominarti tanti classici, Leopardi, Dante. Mi accompagnano ancora».

Contemporanei?

«Ne leggo tanti. Leggo quasi solo poesia, sono un poeta che legge».

Alfonso Guida?

«L’ho letto certo».

Ci si riconosce nella voglia di raccontare le radici?

«Facciamo percorsi diversi, abbiamo modi diversi di intendere la parola. Le vie della poesia poi sono infinite, è un errore pensare ud un angolo stretto. È molto più ampio di quanto si possa credere, composto dalle voci più disparate. Ovvio che ognuno si riconoscerà in quelle che sente più vicine».

Ha mai usato la poesia per far innamorare una donna?

«È successo tante volte, mi sembra inevitabile».

La poesia come arma di seduzione, quindi?

«Si certo».

Scrivere nasce da una ferita?

«Nasce dal tentativo di riparare una ferita, che si riapre continuamente».

Una ferita figlia dell’inquietudine?

«Siamo umani. Ognuno vive le proprie inquietudini…».

Quindi lei si sente inquieto? Mi sembra invece tanto sereno dalla voce…

«Sono vecchio (ride ndr). Mi fa piacere che noti una tranquillità nella mia voce, ma mi ritengo un inquieto di nell’indole».

Lei è rinomato per il legame tra i suoi versi e la terra. Ma l’amore come lo vive?

«L’amore si esprime in tante forme e aspetti: nel mio caso l’amore per il paesaggio, per gli animali. Ho una famiglia, vivo con loro e li amo. Ma anche della poesia sono innamorato, mi aiuta, mi sta vicina, soprattutto quando sto male».

Perchè quando si pronuncia il nome di Franco Arminio si tende a definirlo un poeta “pop”?

«Perchè i miei versi arrivano a tante persone. Capisco che chi usa questa definizione lo faccia in senso denigratorio, ma è sbagliato questo approccio. Poeta pop va bene, anche “non poeta” va bene. Ma se con la mia scrittura emoziono qualcuno se, come è capitato in passato, mi fermano dopo un reading per dirmi “la tua poesia mi ha cambiato la vita”, non conta la definizione che mi si vuole affibbiare. Questo lavoro di sminuimento non mi fa nessun effetto».

Le è capitato tante volte di sentirsi dire che i suoi versi hanno cambiato la vita di qualcuno?

«Tante. Anche se a volte tendiamo a dare più importanza ai commenti negativi. Invece avrei dovuto fare più attenzione a questi incontri, ricordarmi i nomi, le facce di queste persone. Se c’è qualcosa che mi rimprovero è di non essere stato abbastanza attento».

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