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Tullio De Piscopo fa tappa a Monopoli: «Vengo in Puglia per suonare la mia storia» – L’INTERVISTA

Napoletano d’altri tempi per indole e per ritmo, Tullio De Piscopo parla di amicizie, strade, maestri e ostinazioni come se fossero colori: blu come il blues, rosso come il fuoco del bandoneón, verde come la speranza di chi parte guaglione per inseguire la musica. In Puglia torna volentieri - dice - perché lì ha amici,…
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Napoletano d’altri tempi per indole e per ritmo, Tullio De Piscopo parla di amicizie, strade, maestri e ostinazioni come se fossero colori: blu come il blues, rosso come il fuoco del bandoneón, verde come la speranza di chi parte guaglione per inseguire la musica. In Puglia torna volentieri – dice – perché lì ha amici, ricordi, palchi e una gratitudine che non sbiadisce. Giovedì 13 novembre, alle 21, il batterista sarà sul palco del Teatro Radar di Monopoli con lo show «I colori della musica».

Che ricordi la legano alla Puglia?

«Ho tanti amici, tanti musicisti, ricordi bellissimi. Anche grandi concerti con i miei “fratelli”: James Senese, che ci ha lasciato da pochi giorni, e Pino Daniele. Sono orgoglioso di tornare a suonare in Puglia. Al Radar ci sono già stato non molto tempo fa».

C’è un viaggio verso la Puglia che le è rimasto addosso?

«Ricordo il tour con Pino Daniele: il nostro pullman era casa. Ne hanno fatto pure un docufilm, in cui noi cercavamo Pino per tutta Napoli. E poi il tour di «Vai mo’»: un trionfo che non sapevamo di stare scrivendo, una pagina importante della musica italiana. Negli stadi i fan arrivavano dalle tre del pomeriggio, e qualche volta scendevamo a parlare con loro».

Quella vicinanza della gente l’ha mai vissuta come un peso?

«Mai. Massimo rispetto. C’è anche il mitomane, certo, ma la maggior parte è gente bella che ama la musica: compra i biglietti, i dischi, ti segue davvero. Era quello che dicevamo sempre con Pino».

Di recente le hanno consegnato un riconoscimento importante. Di cosa si tratta?

«È un riconoscimento di “Rocker Tv”, diretta da Mario Riso, musicista, speaker, batterista. La trasmissione va in onda il lunedì e si chiama «I batteristi cambieranno il mondo». Hanno istituito varie sezioni – funky, jazz, rock, nuovi talenti – e la categoria “Icona” 2025 l’hanno assegnata a me. Lo accolgo con grande orgoglio: un dono prezioso».

Veniamo al programma che porta a Monopoli. Quali sono i colori della musica?

«Il blu è il blues di Pino Daniele, il blues di Napoli; il rosso è il bianco infuocato di Astor Piazzolla, con cui ho avuto il privilegio di registrare “Libertango” e poi altri lavori. I colori dell’arcobaleno: il verde è la speranza di quando, minorenne, partivo per cercare la musica. Soprattutto: l’amore. Di quello la gente ha bisogno, e con uno strumento bisogna trasmetterlo».

Cosa le ha lasciato Piazzolla?

«Io, per ignoranza, non lo conoscevo davvero. Incontrarlo mi ha cambiato. Mi ha insegnato come si scrive una partitura, come si costruisce un controcanto con strumenti diversi dal suo bandoneón. E che il tango è cultura, non il ballo da balera: a Buenos Aires veniva suonato e danzato nei ghetti da soli uomini, molti italo-argentini. Nel tango la batteria non esiste: ci sono colori, piccole percussioni. Ho avuto l’onore di metterci il mio groove. Umanamente, era straordinario. Si diceva che, se non eri in sintonia con lui, ti mandava a casa: era duro, ma chi ha qualcosa di diverso dentro spesso lo è».

Anche il suo amico James Senese era un duro?

«James non era un burbero come qualcuno lo dipinge. Era un bambinone. Ha sofferto tanto da bambino, si vedeva diverso. Lo facevano sentire diverso. Poi quella diversità l’ha trasformata in orgoglio».

C’è un ricordo con lui che le piacerebbe condividere?

«Ce ne sono mille. Uno degli ultimi: nel 2008, con il supergruppo di Pino Daniele, il tour “Ricomincio da 30”. In Sicilia, vicino Taormina, alloggiavamo in un castello sul mare. C’era un day off: famiglie, amici. La sera io e James decidiamo di mangiare qualcosa nel ristorante del castello. Tutti tavoli a lume di candela, pieno di coppiette. E c’eravamo noi due, a lume di candela. “Tullì, ma nun è ca pensano che simm’ amanti?”, mi disse ridendo. Bellissimo».

L’ultima volta che l’ho visto gli ho raccontato di quando a Molfetta, dopo un concerto, abbiamo cenato con vino e mozzarella che lei ha portato da casa. Mi ha risposto ridendo: «Tullio è Tullio, un napoletano d’altri tempi». Si riconosce in questa definizione?

«Sono cresciuto così. Portarsi i propri sapori ti fa stare meglio: prima di un concerto, se mangi “giusto”, stai meglio. Sul palco questa napoletanità è spontaneità, sincerità, sentimento: è ciò che alla gente piace».

La vede nei musicisti di oggi, la stessa spontaneità?

«Poco. È cambiato tutto. È show business, come stare sempre in televisione, con le telecamere puntate: c’è un copione da rispettare. Così si perde tutto. La musica crescerà solo se ritrovi la personalità: lo dico sempre ai giovani, ai miei allievi. Se la senti forte, lascia il paesino: soffri, rinuncia anche allo spaghetto di mamma, ma vai a cercare dove collocare ciò che hai dentro, anche lontano dagli affetti. Il senso del sacrificio si è perso, e senza quello non si va lontano».

Che cosa ha dato James Senese al sax in Italia?

«È la voce. Quando suonava mi portava nei vicoli di Napoli, quelli scuri, di notte, a Porta Capuana. Il suo sax è la voce musicale di Napoli. Irripetibile. Ho suonato con tanti sassofonisti, italiani e stranieri: è un’altra cosa. James era un gigante».

L’anno prossimo compie ottant’anni anni: sta preparando qualcosa?

«Facciamo che scriviamo 70? (ride) Saranno 365 giorni di festa. Mi hanno preparato una locandina tutta in oro con «80 Tullio», dove la “o” è una batteria. E poi “The last tour…Nun ’o saccio”. E sto preparando una batteria bellissima, tutta color oro, pelli comprese. Non vedo l’ora di festeggiare con i miei fan».

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