Caparezza, una storia di mute e di metamorfosi

Questa sera Michele Salvemini, in arte Caparezza, arriva a Matera: l’artista inaugura infatti la stagione estiva dei concerti nella città di Matera nell’ambito del Sonic Park, che per la prima volta quest’anno si sdoppia e oltre a Stupinigi, Torino porta anche alla Cava i grandi nomi della musica contemporanea e polarizza l’attenzione degli appassionati da tutta Italia con un calendario esaltante. L’“Exuvia” tour di Caparezza prende il nome dal titolo del suo ultimo album, e da quella corteccia fantasma – l’esoscheletro, in effetti – che gli insetti lasciano dietro di sé dopo la muta. Un tour che sarà l’ultimo, per il momento: colpa dell’acufene di cui soffre e che lo costringe a stare lontano dai palchi, almeno per qualche tempo. La traiettoria artistica di Caparezza di metamorfosi e mute è piena e la tappa lucana, alla Cava del Sole “David Sassoli” della città dei Sassi arriva in un momento in cui anche Matera cambia pelle dopo l’esperienza dell’anno da capitale europea della cultura nel 2019 e il letargo dei due anni di pandemia. Il concerto di Caparezza sarà uno show di «due ore e mezza piene di cose che accadono», un viaggio in una foresta luminosa.

Dal punto di vista di chi la segue dall’inizio, la sua è una traiettoria piena di metamorfosi. Il pubblico però non se ne fa spaventare ed è sempre pronto ad abbracciarla, come dimostra anche l’attesa per questa tappa materana. Mutano insieme a lei?

«Sì, ma non nel concerto, bensì negli anni. Posso dire, come un vecchio zio, di averli visti crescere. Molte persone le ho viste arrivare da bambini e le ho riviste cresciute. Molto spesso firmo autografi su foto di questi fanciulli con la maglietta con la mia faccia che sono gli stessi che mi porgono la foto, e davanti a me ho 20enni o 30enni. Sono grato al fatto che in tutti questi anni, ormai 22 da quando ho iniziato a fare concerti come Caparezza, ho avuto un’audience, persone che vengono a vedere i miei concerti non aspettandosi altro se non quello che io presento. Ho il grande vantaggio di poter proporre l’ultimo disco uscito, insieme alle canzoni del passato, senza che qualcuno si lamenti perché spesso accade che le persone vogliano sentire solo il best of».

Nel suo caso, però, non avviene.

«Forse perché sul palco c’è uno spettacolo che a prescindere da quello che si propone musicalmente rende dinamico il concerto».

Anche Matera è una città che ha subito e continua a subire metamorfosi. Questa sera il suo concerto si terrà in una cava: cave, pietre, sono elementi che Puglia e Basilicata condividono. Che sensazione le dà esibirsi in un contesto del genere?

«È rock, roccia. È un contesto nel quale sarò circondato da elementi naturali come la pietra, più che da palazzi. Dal punto di vista del fulcro del concerto è interessante, visto il concept: la foresta, i riti di passaggio. Nella foresta potrebbe aprirsi una voragine che rende tutto più metaforicamente interessante. Mi piace molto esibirmi tra gli elementi della natura».

Di “EXUVIA” lei ha detto che è un album «Dai sapori danteschi, figlio di una sensazione di angoscia e stupore». Nei concerti dei suoi tour però ci si diverte da matti, sono dei veri e propri show. Dove va a finire l’angoscia?

«Sul palco l’angoscia si dissipa. La riprendo dopo, però: mi aspetta sugli scalini. Questo tour è molto liberatorio, non solo per me, anche per chi viene ai miei concerti dopo le restrizioni. Sento che c’è la voglia di scrollarsi di dosso tutta la negatività di questi anni. Non faccio che agevolare questo desiderio, sul palco porto soltanto il mio mondo. Ed è un mondo solare, fanciullesco, nonostante gli argomenti trattati. Farli entrare nella mia selva; non oscura ma luminosa, in questo caso».

Lei di recente ha annunciato che questo sarà, per il momento, il suo ultimo tour. Restando in termini danteschi: entra in un altro girone o esce a riveder le stelle?

«Non lo so, dipende da dove mi porta Virgilio. Nel mio caso, Virgilio è un otorino. Spero a rivedere le stelle, però».

I titoli e i testi delle sue canzoni spesso scherzano sui giochi di parole, un po’ come diceva Gianni Rodari a proposito degli errori creativi, mai da scartare ma sui quali lavorare. Sull’errore si può costruire?

«Sicuramente. Sono uno di quelli che ha costruito tutto sull’errore. Considero la mia parte artistica come Mikimix un errore, un passo falso su cui ho edificato tutta la mia carriera come Caparezza. Credo che l’errore, il passo falso, perfino la sindrome del foglio bianco siano tutti preparativi per qualcosa di più potente. Quando non ti viene niente in mente, in realtà stai scartando ciò che non ti serve e anche quella è un’attività cerebrale».

A proposito di metamorfosi: in passato, lei ha detto di sé stesso, parlando del passaggio da Mikimix a Caparezza: “Dal cui disgusto nacque il sé stesso odierno”. In questo album cambia pelle ancora una volta. Che motore può essere il disgusto?

«È il motore delle persone inquiete, che non amano essere in una comfort zone. Io per esempio mi siedo sempre come fossi scomodo, non c’è una sedia che possa contenermi. Ancora oggi che ho 48 anni sembro un bambino che non riesce a sedersi., Un po’ come quello che accadeva in 8 e ½ di Fellini, dove Guido Anselmi – personaggio che più di tutti incarna il mio modo di essere – si sedeva all’ultima poltrona nel cinema, quella vicino all’uscita, questa scomodità di fondo, questa voglia di sedersi e dopo due minuti già desiderare di alzarsi e andare altrove è il motore delle persone inquiete. Chi lo è, non in senso negativo ma positivo, creativamente inquieto, è sempre alla ricerca di stimoli. C’è solo un piccolo svantaggio: si annoiano facilmente. Per non annoiarmi, sono costretto a rendere sempre tutto più complesso, ed è quello che avverrà sul palco: due ore e mezza piene di cose che accadono».

Agnese Ferri

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