Incombe sulla terra una tragedia immane che rovescia il modo di stare. Un virus sconosciuto agisce togliendo la vista alle persone.
Comunità e individui perdono apocalitticamente quello che credevano di possedere e vedere. Tutto è improvvisamente immerso in un biancore luminoso che assorbe come per divorare non solo i colori ma le cose stesse e gli esseri, rendendoli così, doppiamente invisibili. Questo lo scenario distopico di “Cecità” in scena questa sera al teatro Piccinni.
Quel mare di latte nel quale sono caduti gli abitanti del mondo, li rende sgomenti e impauriti, vulnerabili agli odori e alle esalazioni, li costringe ad apprezzare il pianto e le lacrime, le impronte e il tocco della mano. In questo stato di eccezione un piccolo gruppo si allea per condividere le vie di fuga e il nuovo mondo. Tra di loro una donna non ha perso la vista, ma dovrà rimodulare ogni dettaglio del suo comportamento per coesistere con la vista, per domandarsi a cosa serve vedere.
In questo poema della morte e della sofferenza, il corpo avanza con tutta la sua biologia e le emozioni emergono da gesti nuovi, ritrovati, reimparati. Gli interpreti, come testimoni di questo evento, si ritrovano a toccare lo spazio, a essere toccati dai luoghi, ad ascoltare le tracce del suolo e le onde sonore che vagano nell’aria. La ricerca drammaturgica procede avviando una ricostruzione del corpo che dalla cecità si muove verso una condizione di novità che obbliga a vivere le cose diversamente e ad elaborare strategie di sopravvivenza – o più semplicemente – di rieducazione allo sguardo.
Lo spazio esplorato si compone secondo la scoperta di dettagli tattili e sensibili dove la vista passa in secondo piano, dove il tatto ricrea una nuova percezione di sé, dell’altro e dell’abitare. I comportamenti disperati, desueti, drammatici, malvagi, alla deriva, selvaggi, rispondenti all’istinto animale agiscono come uno scavo profondo portando alla luce ciò che è più umano come l’amicizia e la solidarietà. L’essere bipede umano diventa molto spesso quadrupede, serpente che striscia, cucciolo che si rannicchia, belva brutale che si scuote. Toccando le cose e gli altri elabora nuove posture ed emozioni. Nel biancore accecante della scena tutto si svela di nuovo: emerge quello che prima era presente ma nascosto. La danza nasce da un ritorno allo spostamento, da una migrazione interiore. Il corpo e le sue parti divengono sede assoluta di ripartenza.