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Bari, Gianfranco Groccia: «Recitare è una passione senza tempo» – L’INTERVISTA

Gianfranco Groccia, classe 1963, è a Bari uno dei principali punti di riferimento per tutti coloro che scoprono la passione per la recitazione e sabato sera, con la sua compagnia “L’occhio del ciclone”, si è aggiudicato il premio “Scena 4.0” per lo spettacolo “Terzani-Anam il senza nome”. Ma facciamo un passo indietro. Sono gli anni…

Gianfranco Groccia, classe 1963, è a Bari uno dei principali punti di riferimento per tutti coloro che scoprono la passione per la recitazione e sabato sera, con la sua compagnia “L’occhio del ciclone”, si è aggiudicato il premio “Scena 4.0” per lo spettacolo “Terzani-Anam il senza nome”. Ma facciamo un passo indietro. Sono gli anni Settanta, siamo ad Acri, un paesino in provincia di Cosenza e lui è solo un ragazzo e resta affascinato dagli attori che salgono sul palcoscenico di quel teatro calabrese consorziato col Comune. Per gli studenti gli spettacoli sono gratuiti per fortuna e lui si siede in prima fila con gli occhi spalancati e sogna il futuro. Quel giovane così entusiasta diventerà col tempo un noto regista, scenografo, pittore, conduttore di laboratori teatrali e progetti didattici: una vita fatta di “pane e arte”, a conferma che la passione quando c’è vince su tutto.

Dal 1991 lavora a Bari, come è arrivato qui?

«Per amore. Ho conosciuto mia moglie, insegnante, proprio nella mia terra d’origine, la Calabria, mentre ero impegnato in una produzione destinata anche alle scuole e lei, pugliese, si trovava lì per questo. Ero immerso nella realtà romana, dopo la laurea all’Accademia delle belle arti, a fine anni ‘80 e non avrei mai pensato di trasferirmi qui».
Nella capitale, tra le tante esperienze, ha lavorato come assistente scenografo di Roberto Francia e, nel Teatro Argentina ha conosciuto personaggi del calibro di Maurizio Scaparro, Giorgio Albertazzi e Marcello Mastroianni. Quali ricordi conserva?
«Quest’ultimo era fantastico e per me ha rappresentato una grande scuola; era gentile e geniale, il primo ad arrivare a teatro e l’ultimo ad andar via».

Altre esperienze romane che non dimenticherà mai?

«Quella incredibile con Giorgio Albertazzi in “Memorie di Adriano”, dal romanzo di Marguerite Yourcenar e poi l’impegno come aiuto scenografo di Scaparro nello spettacolo “Vita di Galileo”, l’opera teatrale di Bertolt Brecht».

Questi grandi nomi l’hanno subito spinta verso la regia. Poi è “sbarcato” in terra barese e ha ricominciato tutto daccapo immergendosi nei laboratori con alcuni gruppi come “La Differance” di Elvira Maizzani. In che modo ha dato il via ai laboratori, oggi sempre più richiesti?

«Grazie all’incontro con Maria Laterza e quindi alla collaborazione con il “Granteatrino casa di Pulcinella”, lì dove si svolgono i miei corsi».

Attualmente è anche presidente e direttore artistico de “L’Occhio del ciclone” e ha creato innumerevoli produzioni teatrali con attori di rilievo e il pensiero corre subito al talentuoso drammaturgo e regista barese Lino De Venuto, con il quale lavora da 25 anni; con lui c’è la produzione del recente spettacolo “Terzani – Anam, il senza nome”.

Quale il prossimo progetto?

«Stiamo finendo la trilogia su Molière con “Il Tartufo”».

Nella sua compagnia ci sono attori professionisti e altri dilettanti motivati e bravi ma c’è tutto un mondo di aspiranti attori, sempre di più, di qualsiasi età e che frequentano i suoi laboratori per imparare la tecnica della recitazione e dizione. Con chi è più difficile lavorare?

«I bambini, dai 5 ai 10 anni, sono sicuramente i più impegnativi».

E per gli over 30 quali sono le vere motivazioni che li spingono a salire sul palco?

«Diverse; qualcuno per curiosità e molti altri per gestire le proprie emozioni, le ansie, per conoscere meglio il proprio corpo (la biomeccanica) e allenare la memoria. Quasi nessuno pensa di far questo come lavoro ma anzi è un modo per allontanare lo stress».

Ci sono anche 50enni che poi a fine corso si ritrovano sul palco per il saggio finale. Una bella soddisfazione?

«L’obiettivo non è andare in scena ma il percorso che si affronta. Ciò che mi ripaga di più è riuscire a tirar fuori l’autostima in chi non è ha abbastanza. Nel gruppo ci sono persone che hanno necessità di riprendere fiducia in sé stesse. Recitare, entrare in un personaggio significa anche diventare più sicuri delle proprie capacità. Poi c’è chi arriva per passione e penso ai vari professionisti come avvocati o medici che hanno sempre desiderato recitare ma non l’hanno mai fatto».

La cultura, il proprio background, fanno la differenza nella recitazione?

«Si, un ego eccessivo e senza sostanza non trasmette nulla. Il mio sforzo è quello di far funzionare il gioco di squadra, facendo rispettare tempi e ruoli».

In conclusione, ci parla di un sogno che lei coltiva a occhi aperti?

«Mettere in scena un Amleto rivisitato e poi “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello».

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