Bari, De Blasi presenta “L’ultima settimana di settembre”: «Abatantuono? Geniale» – L’INTERVISTA

«Buonasera, per la presentazione di De Blasi?». «Sono io De Blasi, sto facendo un’intervista. Se me lo fai sapere tu dove e quand’è, vengo anch’io». Così, con una classica scena equivoca, da commedia all’italiana, si è chiusa la mia intervista a Gianni De Blasi in una sala vuota del “Galleria” di Bari, con un operatore televisivo che lo cercava, senza però riconoscerlo. Il regista da lì a poco sarebbe salito sul palco del cinema, prima della proiezione del suo primo lungometraggio “L’ultima settimana di settembre”, che vede attore protagonista un mostro sacro del mondo cinematografico come Diego Abatantuono.

È il suo primo lungometraggio. Cosa ha significato per lei mettersi alla prova con questa avventura?

«Le prime volte sono sempre difficili, poi ti fanno crescere, ti legittimano, ti danno energie per portare avanti un percorso. Mi sento responsabilizzato, in ascolto, più lucido nell’approccio alla regia. Questo film mi ha fatto maturare».

Come si è approcciato al tema del suicidio, che apre il film?

«Il suicidio è il massimo della libertà concessa ad un essere umano. Mi sono confrontato con il fatto che il destino – cioè la vita stessa – ci può togliere questa possibilità».

Inevitabilmente questo tipo di road movie familiare riporta alla mente “Viaggio con papà” di Sordi e Verdone. Ha preso qualcosa da quel film?

«In realtà no. Volevamo un film che fosse morbido, con movimenti d’avvicinamento tra nonno e nipote in punta di piedi. Abbiamo azzerato le soluzioni rocambolesche. Questo era necessario per tenere in equilibrio un antefatto così tragico fino al finale, e ci impediva di mettere su una commedia esplosiva, brillante. È stato necessario far svolgere la storia con movimenti accorti, c’era bisogno di delicatezza. Magari poi riuscire ad avvicinarsi anche lontanamente a film di cui abbiamo avuto reference, come “Nebraska” di Payne, “C’mon C’mon” o “Manchester by the sea”».

Il road movie è stato proposto in tutte le salse nel cinema. Come si aggira l’inconveniente di cadere nel “già visto”?
«Quando ti approcci a un “genere” è un rischio che corri sempre e comunque. Offrire parte del proprio vissuto fa la differenza».

E lei cosa ha messo di suo?

«Le caratteristiche emotive dei personaggi. Pietro contiene quella parte negativa di me che tende ad essere ostinatamente chiusa, a giocare in difesa. È qualcosa che faccio per paura di trovarmi a nervi scoperti, di essere ferito. Quella stessa paura che poi ti porta ad aggredire per primo. Ho fatto una profonda autoanalisi per dar vita ai personaggi».

E tu l’hai vinta questa battaglia?

«Ci lavoro al meglio ogni giorno (sorride ndr)».

Il personaggio di Mattia?

«Mattia invece è la mia componente sedicenne che non ho mai perso. Ricalcitrante, un po’ iperattivo, incapace di gestire la noia. Anche questo sono io».

Pietro è interpretato magistralmente da Diego Abatantuono. Com’è stato lavorare con lui?

«Diego non è solo un monumento della storia del cinema. È parte della cultura popolare italiana. Molti dei vocaboli che utilizziamo sono stati coniati o “storpiati” da Diego. Se dico “eccezionale” impossibile non pensare “ecceziunale” (ride ndr). Ho lavorato con un uomo che prima dell’esperienza mette la sua sensibilità sul set. Apprezzo di Diego il fatto che veda la vita prima del lavoro, e che considera il lavoro vita. Ha bisogno di star bene per lavorare, gli serve il sorriso, l’empatia con chi gli sta attorno. Poi è un attore che non fa della pellicola “il suo film”, ma resta sempre al servizio del progetto. Naturale, spontaneo: geniale. Non è mai costruito, ad Abatantuono crederai sempre, che interpreti un ruolo comico o drammatico».

Abatantuono è visto dal pubblico come icona comica, per quanto nel tuo film il ruolo sia appunto drammatico.

«Questa è la sua grandezza. Pensa a “Regalo di Natale”, in quella pellicola ha sconvolto tutti con la sua interpretazione. Oppure “Un ragazzo di Calabria”. Quel film l’ho visto che facevo le medie…».

E poi si è trovato a dirigerlo sul set.

«Ci pensi? Se lo dico ad alta voce ancora mi sembra strano. Un po’ come un raccattapalle della Roma che arriva poi a giocare con la sua squadra del cuore in serie A».

È stato facile convincerlo ad accettare questo progetto?

«Non è mai facile. Ma devo ringraziare per tutta la vita il mio produttore, Attilio De Razza. Ha bussato ostinatamente alla sua porta e l’ha convinto, grazie alla qualità della sceneggiatura».

Qual è il suo cinema di riferimento?

«Paradossalmente ho girato un film che ritenevo lontano dalle mie corde. Un cinema che emoziona, non visionario. Questo mi ha stupito, perché i miei registi di riferimento li trovo lontani dal prodotto che ho messo su. Mi sono sempre dichiarato per un cinema ricco, barocco, da buon leccese. Il mio primo amore è stato Kusturica, con cui ho avuto la fortuna di lavorare in “Altamente”, un documentario. Poi Tim Burton, Gilliam. E tra gli italiani non posso dimenticare Fellini, il suo realismo magico è fonte d’ispirazione».

C’è qualcosa che ha provato a rubare a Fellini?

«Quello che piace a un regista si riflette sempre, inevitabilmente nei suoi film. In questo film però non credo ci siano particolari riverberi felliniani. Poi se il pubblico li trova mi fa solo grande piacere».

Il futuro dei film è ancora nel cinema o c’è il rischio che le piattaforme inglobino tutto quanto?

«Sono forme espressive differenti, soprattutto se pensiamo alle serie tv, che ad oggi hanno impianti visivi che fanno lezioni di cinema. Vivrei l’argomento come meno ansia di quanto si avverta nell’ambiente, evitando qualsiasi manicheismo».

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