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Bari, con “Reflection” il cinema è un atto di resistenza

Sin dalla sua nascita nel 2012, Registi fuori dagli sche(r)mi, la rassegna cinematografica ideata e diretta da Luigi Abiusi e prodotta da Apulia Film Commission, ha portato a Bari alcuni tra i più grandi autori cinematografici al mondo, richiamando sciami di cinefili e amanti della settima arte da tutta la Puglia e oltre. Che la proiezione di “Reflection”, l’ultimo film del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, prevista per domani al cinema “Abc” nell’ambito della rassegna, abbia fatto registrare richieste tali da prevedere un altro spettacolo in aggiunta a quello unico inizialmente previsto alle 21.00, non deve dunque stupire. Del resto Abiusi, nato ad Altamura, che è poeta, scrittore, docente universitario e critico (non solo cinematografico ma anche letterario e musicale), nonché firma de “Il manifesto” e di diverse, importanti riviste letterarie e cinematografiche, ci ha abituato ad eventi per molti versi imperdibili, anche in virtù della formula del dibattito con l’autore post film. Anche perché, fuori dagli schermi, oltre l’evento-proiezione, c’è qualcosa che gli conferisce identità e intensità: un’idea di critica militante, del cinema, della letteratura, dell’arte (e della critica, appunto) come forme di resistenza, come forze indispensabili per riconoscere e custodire poesia e bellezza, per preservare ciò che di più profondamente umano ci è rimasto.

Immagino che l’idea della proiezione venga dallo scoppio del conflitto russo-ucraino?
«In realtà ci pensavo già da settembre, quando ho visto il film in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Infatti stavo lavorando con Massimo Tria, mio collega alla Settimana della Critica veneziana e che parla ucraino, l’unica lingua che Vasyanovich conosce, per portare il regista qui a Bari, ma poi con lo scoppio della guerra è partito per il fronte. Ad ogni modo nel 2019 ero già rimasto abbagliato dal film precedente di Vasyanovich, Atlantis, e ne scrissi un articolo per il Manifesto. C’era una delle sequenze che reputo tra le più belle della storia del cinema recente, un piano sequenza meraviglioso che mi ha richiamato alla mente quello che chiude Professione Reporter».
In che modo il cinema di Vasyanovich ci parla dell’esperienza della guerra?
«Già Atlantis ci aveva detto moltissimo su questo conflitto, perché era un film distopico che immaginava un’escalation e addirittura una fine, prevista per il 2025, della guerra del Donbass, che in realtà, come sappiamo, è scoppiata nel 2014 e che già Sharunas Bartas aveva portato sullo schermo con Frost nel 2017. La forza di queste opere sta nel modo di girare dei loro autori. Non c’è soltanto il referto politico, sociologico, ma ritroviamo le inferenze psicologiche, individuali, filosofiche, spirituali, oltre che etiche. Reflection è un film che da un lato affronta l’atrocità della guerra, cioè la violenza di un uomo contro un altro uomo, anche inerme, dall’altro lo fa fuor di retorica proprio in virtù del suo linguaggio. La profondità di campo, la macchina fissa, il montaggio, danno centralità vera alla guerra, riempiono di senso, di presenza, di corpi, per quanto tremendo sia, una parola che per le generazioni venute dopo la seconda guerra mondiale è svuotata di senso, pura retorica».
Uno squarcio sulla contemporaneità, sul mondo in cui viviamo, quindi.
«È questo il presupposto di RfdS. Mi resi conto della sostanziale invisibilità di molte opere confinate nei festival ma brulicanti di significato, aperte alla contemporaneità e proiettate sul futuro, avulse dalla tradizione stantia anche nella forma, e cioè staccate da quella sorta di ‘garanzia narrativa’ che determina l’appeal commerciale di un’opera. Film senza il compromesso del mercato, con prospettive visionarie, frammentate, che avevano molto da dire sul nostro stare al mondo. Registi come Bartas, Tarr, Alonso, Vasyanovich, stanno addosso alla realtà. La loro macchina da presa si prende il tempo di stare sulle cose e di far fuoriuscire la realtà dallo schermo per rendercene partecipi, perché ci venga incontro. Esisteva dunque un cinema che non alimentava il solito meccanismo di automazione, di riduzione della realtà a dato quantitativo, a numero».
Chi si occupa di arte cinematografica può ancora contribuire a plasmare gli occhi dell’uomo del XXI secolo?
«Certo. A patto che si distinguano due modalità di fare critica. Mettere su un blog che si limita a giudicare senza argomentare non è fare critica. Far comprendere allo spettatore che c’è uno spettacolo da ‘consumare’ con la dovuta preparazione lo è. La critica partecipa all’atto creativo perché reinventa il film e indica al pubblico determinate questioni, anche di linguaggio. È attraverso la forma che il regista dice cose che trascendono il contenuto. La forma è l’involucro trascendente degli oggetti, ci consente di ergerci oltre la realtà spesso meschina che ci circonda. Da questo punto di vista il critico dev’essere come un sacerdote.

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