“Anfora Clandestina”, il poeta Guida si racconta: «Vivo sempre nel passato. Scrivo in un eterno presente» – L’INTERVISTA

Per il poeta lucano Alfonso Guida l’isolamento è condizione di nascita. La solitudine lo abita, senza alcun arredo in lui. E guai a immedesimarsi, a solidarizzare, si rischierebbe il paradosso. La sua non è semplice ritrosia alla compagnia, non è occasionale bisogno d’isolamento, è qualcosa di più denso, primordiale. Geometrico e verticale, nella sua poetica porta in tasca un sussurrare di salvezza che è franchezza della parola. Un po’ preghiera, dichiarazione d’amore muto. Ossimorico e coerente, azzurro ed oscuro, un colloquio infinito, il rubinetto della fontana in piazza che non smette di gocciolare. Giovedì a Bari, a margine delle letture tratte dal suo ultimo libro, “Anfora Clandestina”, nella galleria Misia Arte a Bari, seduto in un angolo, quasi timidamente, con il mozzicone della sigaretta consumata tra le dita, si racconta.

Che sensazioni le ha lasciato questo reading?
«Non mi aspettavo tutta questa gente. Le letture di poesia sono generalmente poco frequentate, ma stasera è andata bene».

Rimane un qualcosa di nicchia la poesia?
«Oggi si scrive tanto e di poesia se ne parla fin troppo».
Sta diventando pop, insomma.
«Pop, mercato e delirio».

Vende la poesia oggi?
«Vendono quelli che sanno farla vendere».
Ha vinto il prestigioso premio “Dario Bellezza” nel ’98. Che ricorda di quella esperienza?
«Bellissima. Fu il mio esordio. Mi sono affacciato sulla scena letteraria frequentando festival e reading. Sono nate splendide amicizie, alcune delle quali si sono dissolte nel tempo. Ma a una amicizia ne succede un’altra, è lo svolgersi naturale delle cose».

Sono tempi in cui i rapporti sono qualcosa di effimero, che passa, senza un protrarsi e stabilizzarsi?
«È difficile oggi coltivare un rapporto. Ci sono troppe distrazioni, l’elemento verbale è assente, il dialogo, la capacità di confidarsi, sono le basi di una relazione. Credo manchino le parole».

È il male di un egocentrismo imperante, questione di individualismo?
«È questione di assenza. Ci si assenta dagli altri, vivendo riparati nel proprio “Io”, nella propria pelle».ù

Torniamo a Dario Bellezza, un autore che troppo spesso sembra dimenticato…
«È una delle mie guide, uno scrittore che ho amato. Con il suo libro postumo, “Proclama sul fascino”, ha raggiunto vette inarrivabili. Dario per me è stato un maestro di letteratura e di vita».

Mi racconti “Anfora Clandestina”, presentato stasera.
«È un libro fortemente lirico. Nel contenuto resto fedele ai miei paesaggi, formalmente ho introdotto la rima, una novità per me. Mi sento un poeta della tradizione, non dell’avanguardia. Nasco con Pasolini e con i suoi versi: “Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore”».

Che rapporto ha con la figura di Rocco Scotellaro, lucano come lei?
«Siamo lontani, Scotellaro era un poeta proiettato all’esterno, facile catturi l’attenzione sociologicamente. Io al contrario sono endogamico, endogeno. Tendo al dentro. Sono un poeta non del mondo, ma dell’incesto.

Eppure scrivendo si apre al “fuori”…
«Ed è un bene. Una cura. Svuotarsi, liberarsi, creare spazio per il “Tu”. Scrivere è far posto ad altro.»

Una volta, intervistando Milo De Angelis mi disse che “scrivere è aprire i conti con il passato”. Lei lascia indietro quello che scrive?
«Il passato è una strada che rimane aperta e confluisce nell’oggi, nell’istante, nell’attimo, hic et nunc. Vivo continuamente nel passato e scrivo in un eterno presente».

Ha un viaggio in treno di otto ore davanti a lei. Che libro porta con sé?
«Un libro di psicoanalisi».

Mi sarei aspettato un romanzo…
«Leggo molta psicoanalisi. Faccio una attenta distinzione tra libri utili e inutili. La psicoanalisi volge alla cura della mente e quindi dell’anima».

Non pensa che un romanzo possa curare?
«Qualcuno. I miei autori sono pochi: Celan, Penna, Mandelstam. Mi ha influenzato la statica nell’opera di Gottfried Benn. Ormai però sembra quasi non ci siano più scrittori nella mia vita. La poesia sembra far parte di un altro tempo, un qualcosa di antico e radicato in me. È diventata un’abitudine quotidiana e, proprio per questo, sembra scomparsa».

Un po’ come prendere il caffè la mattina…
«Una colazione a ripetere. Questo è scrivere per me».

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