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Violenza contro le donne, parla Maria Antonietta Rositani: «Io, sopravvissuta alle fiamme ma lo Stato mi ha lasciata sola»

Un’ustione sul 75% del corpo, due anni di ospedalizzazione, uno dei quali trascorso al Policlinico di Bari, oltre 220 interventi chirurgici e «tantissime battaglie che sto portando avanti insieme a molte difficoltà per potermi continuare a curare». È solo una parte della storia di Maria Antonietta Rositani, per anni vittima di violenza da parte del…

Un’ustione sul 75% del corpo, due anni di ospedalizzazione, uno dei quali trascorso al Policlinico di Bari, oltre 220 interventi chirurgici e «tantissime battaglie che sto portando avanti insieme a molte difficoltà per potermi continuare a curare». È solo una parte della storia di Maria Antonietta Rositani, per anni vittima di violenza da parte del marito che, il 13 marzo del 2019, nonostante fosse ai domiciliari, è uscito di casa, l’ha raggiunta e ha cercato di bruciarla viva.

Come stai?

«Ringraziando Dio vado avanti, ma purtroppo sono una donna che vive di una piccola pensione e che ha bisogno di tantissime cure perché le mie ustioni sono forti e mi hanno provocato dei danni permanenti. Si tratta di cure e creme estetiche che costano un sacco di soldi e che il servizio sanitario nazionale non passa. Tutto quello che ho fatto lo devo a delle persone e delle associazioni che mi hanno supportato. Sono mamma di due figli e mi devo prendere cura anche di loro».

La tua è una storia che viene da lontano…

«Ho iniziato a denunciare già dal 2017 e l’ho fatto più e più volte. Nel 2018 il mio carnefice è stato colto in flagranza dalla polizia mentre mi picchiava. È stato arrestato, processato e condannato ai domiciliari. Da lì però è evaso. Fu mio padre ad avvertirmi quella mattina. Chiamai la polizia e gli agenti mi dissero di farmi un giro in macchina perché si dovevano accertare della cosa. Quell’uomo mi raggiunse, mi speronò con l’auto e mi dette fuoco, prima dentro e poi fuori dall’auto».

Pochi giorni fa sono uscite le motivazioni della condanna del tuo ex marito. Sei soddisfatta?

«Della sentenza in sé e per sé sì. È per tutto il resto che non lo sono».

Perché?

«Paradossalmente se oggi racconto la mia storia è perché lo Stato non mi è stato vicino. Avevo fatto due denunce, ma queste non sono mai state ascoltate. Quell’uomo era ai domiciliari ma utilizzava i mezzi di comunicazione e anche su questo avevo fatto altri due esposti. Nessuno ha fatto niente. Quando è evaso, ho chiamato la polizia e ho chiesto aiuto: gli agenti mi hanno detto di farmi un giro in macchina. Mentre mi dava fuoco ho richiamato la polizia per dire che mi stava bruciando viva. Mi diceva: “Muori”. Se lo Stato mi avesse aiutato, forse non avrei passato tutto questo. Oggi sono una donna che vorrebbe rinascere, lavorare, riprendersi la sua vita in mano. Credo che lo Stato mi debba almeno questo».

Quanto tempo in terapia intensiva?

«Sono stata esattamente 10 mesi, di cui un mese in rianimazione in quanto sono stata pure in coma».

Quanto è stato difficile superare tutto ciò?

«Quell’uomo quel giorno mi voleva vedere morta. Ma quel giorno mi ha anche segnato in bene perché Dio mi ha dato la possibilità di rinascere, mi ha cambiato e mi ha fatto apprezzare la vita nella quotidianità di tutti i giorni».

Hai vissuto molto tempo nella paura, vero?

«È una cosa orribile. La paura l’avevo prima che mi desse fuoco, quando sapevo che ero sola e che non avevo nessuno che mi proteggeva e mi tutelava. E quando ho capito che andare a denunciare non mi serviva ad avere protezione. Mi sono sentita e mi sento tutt’oggi sola, quando vorrei potermi curare e non posso perché non ho i soldi per poterlo fare».

Non basta il codice rosso, allora?

«Assolutamente no. Quando una donna denuncia, non può tornare a casa dal proprio aguzzino perché quell’uomo diventa ancora più cattivo».

Quello che hai passato poteva essere evitato?

«Certo! Poteva essere evitato in tutti i modi possibili e immaginabili. Poteva essere evitato quando io nelle aule di tribunale ho detto che lui minacciava me e mia figlia tramite i social e il telefono nonostante fosse agli arresti domiciliari, poteva essere evitato nel momento in cui ho chiesto aiuto alla polizia e mi ha detto di farmi un giro in macchina. Quel giro mi è costato quello che mi è costato. Era tutto evitabile».

Cosa vuoi dire alle altre donne vittime di violenza?

«Che nonostante tutto devono denunciare. Si devono ribellare ai loro aguzzini e mettersi nelle mani della giustizia, che a sua volta ci deve aiutare e tutelare: non ci può abbandonare. Perché una donna che denuncia è una donna che ha prontezza di essere morta».

Come si può arrivare a tanto?

«Questi uomini sono così e purtroppo siamo noi donne che non riusciamo a vedere il loro vero essere e cerchiamo di coprirli e di poterli addirittura cambiare. Io mi sentivo colpevole del modo in cui era quell’uomo, quasi come se quelle aggressioni me le meritassi e me le fossi cercate. Ma quella non era la vera forma di amore. E l’ho scoperto quando lui ha aggredito mia figlia, che si era interposta per non farmi ammazzare dal padre».

Come si fa ad aiutare le donne vittime di violenza?

«Ci sono tantissime persone che bene o male sanno se una donna subisce violenza o meno. Perché si sentono le urla, si vede la sofferenza nel volto, si intravede qualcosa che non va. Basta farsi i fatti propri: se ci si espone, qualcosa potrà cambiare. Ricordiamo che quella donna può essere vostra figlia».

Cosa chiedi?

«Vorrei un lavoro, ma non perché mi è dovuto. Ma perché in fin dei conti a me un lavoro me l’ha strappato lo Stato».

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