È tempo di verità per mamma Rosanna, che da anni lotta per questo. Perché la giustizia individui un nome, uno o più responsabili, per la morte di suo figlio, l’agente di polizia penitenziaria Umberto Paolillo, in servizio nel carcere di Turi, suicida nella sua auto durante la notte del 18 febbraio 2021, sparatosi con la pistola d’ordinanza.
Per quasi tre anni, le porte sono rimaste chiuse, sbarrate, nonostante le testimonianze e le lettere disperate che Umberto aveva affidato al suo avvocato e al biglietto che conservava sul suo corpo. Fino ad oggi, quando il gip del tribunale di Bari, Francesco Rinaldi, ha ascoltato quelle richieste, le ha valutate e ha disposto che entro 90 giorni – o nel minor tempo necessario- la pm Daniela Chimienti effettui ulteriori accertamenti.
La storia di Umberto è una storia di sfottò, umiliazioni, persecuzioni, da parte dei suoi colleghi che, impietosi, più e più volte, lo avrebbero preso in giro. Lo raccontava lui stesso in quelle lettere consegnate al suo legale, l’avvocato Antonio La Scala, lo ha finalmente confermato un detenuto: «Lo prendevano in giro dicendogli che aveva 60 anni e che era ancora vergine e che abitava ancora con sua madre, lo sfottevano continuamente perché viveva ancora con i suoi genitori, lo chiamavano gobbetta e gli davano dei giornaletti porno perché dicevano che era ancora vergine. Un giorno mi sono messo io di mezzo dicendo di smetterla. Umberto spesso si confidava con noi. Lo vedevamo sempre triste, quando abbiamo saputo del suicidio tutti abbiamo pensato che fosse arrivato al limite e che il gesto fosse collegato a ciò che subiva. Quel carcere è uno schifo».
L’avvocato La Scala, che Paolillo lo conosceva bene, più volte aveva riferito ai carabinieri del dolore raccontato dall’amico per tutte le volte che gli dicevano che era gay, che era malato e che prima o poi avrebbe perso il posto di lavoro a cui lui teneva tanto. Ma le parole di Paolillo, racchiuse in alcune lettere sin dal 2005, consegnate all’avvocato non sembrarono sortire effetto presso gli inquirenti.
E anche quel biglietto, ben piegato e riposto nella giacca del giubbotto che indossava, raccontava dei soprusi, delle ingiustizie, delle angherie sofferte per 15 anni da quei colleghi, che sentiti dall’autorità giudiziaria, riportavano di storie, a loro dire raccontate da un pazzo rancoroso con manie di persecuzione.
L’avvocato Antonio Portincasa e la collega Laura Lieggi si sono a lungo opposti fortemente alla richiesta di archiviazione disposta dalla pm, chiedendo che gli attori della vicenda fossero risentiti, che le lettere consegnate dall’avvocato La Scala, unitamente alle dichiarazioni del detenuto fossero prese in considerazione. Invano, per anni, fino ad oggi.
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