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Profumi, orologi, marijuana e contatti con l’esterno: la dolce vita dei boss in cella a Bari e Taranto

«Sembrava più un detenuto che una guardia». È Giuseppe Simeone, uno dei collaboratori di giustizia storici della città di Bari, a dare la definizione di Giuseppe Altamura, detto “Cartellino Rosso”, l’agente di polizia penitenziaria condannato a sette anni e 90mila euro, a maggio scorso, assieme a Francesco De Noia, più conosciuto dai clan come “Franchino…

«Sembrava più un detenuto che una guardia». È Giuseppe Simeone, uno dei collaboratori di giustizia storici della città di Bari, a dare la definizione di Giuseppe Altamura, detto “Cartellino Rosso”, l’agente di polizia penitenziaria condannato a sette anni e 90mila euro, a maggio scorso, assieme a Francesco De Noia, più conosciuto dai clan come “Franchino il bitontino”.

Sono loro due, assieme allo storico boss Vincenzo Zonno (condannato a 4 anni e mezzo, e 75mila euro di multa), i “protagonisti” di una sentenza di condanna, quella di maggio, che ha descritto, in 145 pagine di motivazioni, la dolce vite dei detenuti nelle carceri di Bari e Taranto, negli anni dal 2008 al 2012.

Una permanenza, per gli affiliati al clan Strisciuglio, resa meno afflittiva proprio dai favori dispensati da Altamura e Di Noia: si va dalla gestione molto rilassata delle ore da trascorrere in cella, alla possibilità di ricevere dall’esterno profumi, cd, radio, orologi, cozze, inchiostri per tatuaggi, creme di bellezza, segni distintivi di potere mafioso, ma anche grandi quantità di hashish e marijuana. Ancora: “fili d’angelo”, lame modificate, capaci di tagliare le sbarre.

E non solo: avrebbero consentito di consumare liberamente la droga nella zona delle docce, avrebbero portato i pizzini all’esterno del carcere, gestendo interamente l’ordine nella sezione. E ricevendo, in cambio, 500 euro a consegna, la soluzione di problemi personali, come il ritrovamento dell’auto rubata di Altamura, o la consegna di una tv a schermo piatto, consegnatagli a casa da uno dei collaboratori di giustizia, all’epoca legato al clan Parisi di Japigia.

Sarebbe toccato invece a Di Noia far entrare in carcere numerose pillole, che contenevano anche sostanze stupefacenti, necessarie ad un altro detenuto, l’albanese Kafilai Nurce, per peggiorare il suo stato di salute (compromesso dal diabete) e consentirgli di ottenere gli arresti domiciliari. In cambio, oltre a denaro, avrebbe indotto sua moglie ad avere periodici rapporti sessuali con la guardia carceraria.

Proprio ai numerosi pentiti, dei clan Strisciuglio e Parisi, si devono gli importanti riscontri all’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bari, coordinata da un sovrintendente della polizia di Stato e nata da una segnalazione di un aspirante collaboratore di giustizia. Poi le telecamere all’interno del carcere, le intercettazioni telefoniche e ambientali, i riscontri dai collaboratori e gli accertamenti documentali.

Da tutto questo emerge uno spaccato inquietante, nel quale spicca la figura di Altamura, «uno di noi», come lo definiscono gli Strisciuglio: «Non è un affiliato perché alla fine è un detenuto, una guardia, però è come un amico – spiega Simeone – Un amicone, come devo dire … Uno che che tu ci tieni, che lui … perché alla fine è lui che ti fa star bene, ti porta delle cose, chiavette, cose che tu non puoi avere».

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