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Jet set, voti e mafia alle comunali: così Olivieri fece eleggere sua moglie a Bari

Il salto di qualità, quello che storicamente si attribuisce alle organizzazioni mafiose di rispetto, la capacità di penetrare nell’economia pulita di un territorio, nella politica, nella gestione dei posti di lavoro, nelle aste giudiziarie, nel calcio sportivo e perfino nel rispetto della vita umana. I due clan di Japigia, i Parisi (in particolare) e i…

Il salto di qualità, quello che storicamente si attribuisce alle organizzazioni mafiose di rispetto, la capacità di penetrare nell’economia pulita di un territorio, nella politica, nella gestione dei posti di lavoro, nelle aste giudiziarie, nel calcio sportivo e perfino nel rispetto della vita umana.

I due clan di Japigia, i Parisi (in particolare) e i Palermiti, avrebbero costruito tutto ciò grazie ai legami, strettissimi, con politici che siedono alle tavole del jet set barese e, grazie alle serate mondane, stringono accordi. A far crollare il castello dorato sono state le indagini della polizia (gli uomini dello Sco e quelli della Squadra Mobile della Questura di Bari), coordinati dai sostituti procuratori antimafia di Bari, Fabio Buquicchio, Marco D’Agostino e Federico Perrone Capano.

Che hanno messo giù, sul tavolo della maxinchiesta, la capacità di stringere accordi e condizionare l’esito politico delle comunali baresi del 2019, dell’ex consigliere regionale Giacomo Olivieri, in carcere da ieri con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso. Ma non solo: dall’elezione di sua moglie, Maria Carmen Lorusso a consigliera comunale (candidatasi con la lista Di Rella sindaco), messa agli arresti domiciliari, emerge anche un altro inquietante spaccato: lo sfruttamento, da parte della coppia patinata, tramite il padre della donna, l’oncologo Vito Lorusso (già ai domiciliari per altra vicenda e anche lui ieri destinatario di misura cautelare), di una condizione di debolezza, quale il ricorso alle sue cure del nipote di Savino Parisi, all’epoca malato e poi deceduto. È anche questo uno dei legami che, di concerto con Olivieri, sarebbe stato sfruttato per avviare nuovi rapporti affaristici con il clan di Savinuccio (in carcere e anche lui destinatario di misura cautelare). Agli atti conversazioni fra i tre nelle quali Olivieri utilizza un linguaggio tipico della forza intimidatrice delle organizzazioni mafiose, parla di guerra, con espressioni che il gip Alfredo Ferraro definisce “esplicite e volgari, mostrandosi spietato e irrispettoso anche nei confronti della malattia grave di cui era affetto il Bellomo, e pavoneggiandosi di essersi rivolto anche in questi termini. Tale ultima circostanza, peraltro – scrive ancora – denota una significativa spregiudicatezza criminale, laddove l’Olivieri non serbava alcun tipo di timore nel rivolgersi ad un membro del clan mafioso, mostrandosi al contrario aggressivo e prepotente. Non solo è emersa la spavalderia dell’Olivieri ma anche una sua particolare attitudine a comportamenti mafiosi”.

Numerosissime, in quei concitati mesi che hanno preceduto le comunali del 2019, le intercettazioni di cui protagonista principale sarebbe stato Giacomo Olivieri, capace di tessere accordi con diversi clan del territorio barese, da San Pio a Carbonara, dal rione San Paolo (con la famiglia Montani) a Japigia, appunto, investendo per ciascun gruppo somme di denaro in cambio di voti per sua moglie, promesse di posti di lavoro, case popolari e perfino del conseguimento di una patente di guida. Diecimila euro per buoni pasto, cinquemila per buoni benzina, con una media di 25/50 euro a voto, ma mai personalmente, cercando di adottare precauzioni, tuttavia non sufficienti a evitargli l’arresto. Tra le altre, la cura nell’evitare che il candidato sindaco Di Rella fosse fotografato con pregiudicati durante le visite al rione San Pio, o l’utilizzo dei “normografi” per chi non sapeva scrivere il nome di sua moglie.

Ma non sarebbe servito, per adottare maggiore prudenza, il consiglio di un amico fraterno che lo informa delle indagini a suo carico, apprese in via confidenziale: «Giacomo, la caccia è a te, occhio a parlare, occhio … guardati attorno … ti sto parlando seriamente. Ti vogliono far male Giacomo … che noi stiamo a vincere davvero, quindi occhio fratello mio … il bene che ti voglio, questi sono i gesti davvero … cioé tu hai saputo una notizia, devi stare zitto … non esiste proprio. Quelli stanno vedendo i movimenti … se stai a fare i movimenti bancari, cioè io ti sto dando tutte le indicazioni. Anziché essere distratto, ti guardi attorno…».

Quei movimenti bancari che, con ogni probabilità si riferivano ad un episodio, quello relativo ad un debito di un milione 168mila euro della “Fondazione Maria Rossi Olivieri NDG” nei confronti della Banca popolare di Bari. È luglio 2019 e l’allora consulente legale Gianvito Giannelli sta per diventare il presidente del nuovo Consiglio di amministrazione.

È a lui che Olivieri si rivolge telefonicamente, in via amichevole, perché quel debito, reclamato dalla Cerved (la società di riscossione), sia posticipato nella notifica del precetto. Un accordo, registrato dalle microspie della polizia, che regge solo per poco, perché una successiva telefonata da parte di un collega dello studio di Giannelli fa precipitare le cose, scatenando l’ira di Olivieri e le minacce concrete di bruciarne l’elezione, grazie ad una campagna mediatica sul “Quotidiano Italiano” di cui Olivieri era avvocato (secondo i magistrati anche proprietario), ma anche su un altro quotidiano, grazie ad un dossier in suo possesso.

La minaccia, come testimonieranno i fatti, avrà successo perché Giannelli il 21 luglio 2019 viene eletto presidente del Cda, e l’indomani la Banca popolare di Bari invia alla Cerved una mail con cui manifesta l’intenzione di riacquistare il credito ceduto, riferendo al contempo che la precedente cessione era stata dovuta a un “disguido”, determinando così uno stop alle azioni di recupero che voleva intentare la Cerved. Stop prolungato fino agli accertamenti della polizia giudiziaria del 30 settembre 2020.

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