Il Comune di Taranto e le sue aziende di trasporto e pulizie, Amat e Amiu, hanno diritto a un risarcimento da più di 13 milioni di euro per i danni, di cui otto milioni solo all’immagine, subìti dall’inquinamento dell’Ilva negli anni passati. Lo ha stabilito il giudice Raffaele Viglione della seconda sezione civile con una sentenza storica che sancisce chiaramente, per quanto nel solo primo grado di giudizio, l’entità dei danni causati dalle polveri del siderurgico nei vicini quartieri e al cimitero.
Il magistrato ha condannato a pagare il risarcimento Fabio Arturo Riva, uno degli ex proprietari della fabbrica, l’unico a accettare l’eredità del defunto patron dell’Ilva Emilio Riva scomparso a aprile 2014 e l’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso. Entrambi sono stati già condannati in primo grado nel processo “Ambiente svenduto” sul presunto disastro ambientale di Taranto causato dall’Ilva rispettivamente a 22 anni e 21 anni di reclusione. Una sentenza innovativa sopratutto perché riconosce alla città e al Comune (che rappresentato dall’avvocato Massimo Moretti aveva chiesto un miliardo di euro di danni di immagine) la lesione dell’identità storica, culturale, politica, economica e anche alla reputazione turistica. Per il giudice Viglione le conseguenze dannose delle emissioni del siderurgico, raccolte in decreti di sequestri, perizie, sentenze e provvedimenti legislativi di svariati governi, non avevano neanche bisogno di prove. La questione ambientale a Taranto, scrive il giudice nelle 107 pagine di sentenza, è fatto notorio, «diventata patrimonio di conoscenza dell’uomo medio non solo a Taranto ma in tutta Italia».
Nel provvedimento vengono passati in rassegna gli ultimi vent’anni circa di storia giudiziaria del siderurgico, dalla condanna definitiva del 2005 ai sequestri, dagli abbattimenti di capi di bestiame, al divieto di coltivazione di cozze nel Mar Piccolo, contaminati da diossina e Pcb, da «l’indicibile dilemma salute-lavoro», fino alle numerose manifestazioni di protesta per l’ambiente. E, scrive ancora il giudice, «la forza terrificante di questo racconto, la sua verità, per come accertata anche nella presente sentenza, hanno irrimediabilmente forgiato agli occhi di chi non la conosceva l’immagine» di una città «indicata dai mass media come la città più inquinata d’Italia». Comune, Amat e Amiu, che inizialmente avevano fatto causa anche alla decotta Ilva spa e a un’altra azienda del gruppo, Riva Fire, poi diventata Partecipazioni Industriali spa, hanno raggiunto un accordo transattivo per l’insinuazione allo stato passivo di cui si occupa il tribunale di Milano.
Capogrosso e Riva, invece, sono rimasti in causa e a loro, ora, il giudice in sentenza imputa «la scelta deliberata di continuare a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza, in presenza di strutturali carenze organizzative e tecnologiche che non consentivano né di evitare né di abbattere le propagazioni di polveri e inquinanti nell’ambiente circostante con effetti di danno e di pericolo per la salute dei cittadini». Nella sentenza ci sono i danni materiali, per le polveri che si sono abbattute sul cimitero, sui quartieri Città vecchia e Tamburi imbrattando facciate e balconi. La vecchia Ilva per il tribunale tarantino ha danneggiato anche turismo e prodotti locali, per prima la cozza tarantina, favorendo anche la fuga di giovani dalla città. Nel calcolare l’equivalente del massimo danno da diffamazione a mezzo stampa di eccezionale gravità secondo le tabelle dell’osservatorio giustizia civile di Milano moltiplicato per 160, il giudice conclude che «la percezione di un territorio tossico e contaminato, finanche nei prodotti alimentari che offre, foriero di danni alla salute e di pericoli per la vita umana, pronto al coprifuoco e soggetto a tempeste di polveri minerali nei giorni più ventosi di maestrale, incarna la massima lesione possibile all’immagine di una città trasformata in capitale della diossina, un luogo ove il valore stesso dell’esistenza umana appare ridimensionato e esposto a rischi altrove inaccettabili».