Torna ai giudici del lavoro e ne esce nuovamente sconfitta la Banca popolare di Bari, con una sentenza che apre le porte a molte considerazioni. È la storia, ormai lunga, di Luca Sabetta, il funzionario che con la sua denuncia alla giustizia penale (oltre che amministrativa) molti anni fa scoperchiò il sistema finanziario locale, lasciando emergere il profondo dissesto oggetto di vari filoni processuali.
Testimone principale nel “processo madre”, che vede alla sbarra tra gli altri Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio, subì dal 2013 al 2015, un demansionamento progressivo, una «marginalizzazione crescente» sfociata nel licenziamento “per giusta causa” (a dire della banca) il 15 dicembre 2015. E cioè, tre giorni dopo aver fatto valere i suoi diritti.
Otto anni dopo, la sezione Lavoro della Corte d’appello di Bari, con una dettagliata sentenza, ha dato nuovamente torto alla Popolare, confermando la sentenza di primo grado (del 4 novembre 2021) e aggiungendo elementi di attualità. Ai magistrati di secondo grado si erano rivolti i legali dello stesso istituto di credito, chiedendo che fosse ribaltato quel giudizio di primo grado, con il quale Luca Sabetta veniva riassegnato alle sue legittime funzioni. Quelle funzioni di Chief Risk Officer, per le quali nel 2013, in concomitanza con un’ispezione della Banca d’Italia, era stato richiesto con insistenza il suo ingresso nell’organigramma della Bpb.
Un incarico per il quale Sabetta ne aveva lasciato un altro più prestigioso, costringendo di fatto al trasferimento da Siena anche la sua famiglia. Ma pochi giorni dopo il suo arrivo, era stato facile percepire quella che lui racconterà come mortificazione professionale: fuori dalle decisioni, in una stanza lontana da quelle decisionali, con un’auto di servizio vecchia, per poi essere trasferito a capo di una Corporate della banca, con due soli dipendenti e in perdita.
Fino, poi, al licenziamento con ragioni che i giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto infondate. Ma non sono gli unici. Di Sabetta parla anche il decreto di conclusione delle indagini preliminari di quel famoso primo filone, emesso a marzo scorso, definendolo “esautorato, in concreto, da qualsiasi potere decisionale e di controllo ed escluso da tutte le riunioni dei vertici della Banca Popolare di Bari, aventi ad oggetto operazioni di valutazione del rischio rilevante e sulle quali poteva esercitare il diritto di veto”, “le funzioni di CRO venivano svolte, di fatto, da Antonio Zullo, già a capo della stessa struttura quale responsabile della Funzione di Risk Management sino alla nomina del Sabetta e quindi del medesimo funzionario che aveva svolto tale incarico in concomitanza con le ispezioni della Banca di Italia”.
E tutto ciò, per i giudici di appello, sono “indici significativi ed univoci della volontà punitiva, per avere il Sabetta assunto un atteggiamento certamente non compiacente in ordine alla politica gestionale adottata, che di lì a pochi mesi condusse al noto crac della BPB Spa”. Ma si spingono oltre, evidenziando “una seconda fase di demansionamento e dequalificazione successiva alla reintegra”, stigmatizzata in un’altra sentenza con la quale il 4 maggio scorso il tribunale del lavoro aveva condannato la banca a “riassegnare Sabetta alle mansioni di Chief Risk Officer”, visto che quelle assegnategli fino ad allora, quale Responsabile del Servizio di Investor relation non erano “equivalenti e prive di carattere strategico”.
«Dalla sentenza della Corte di Appello si evince che – confermano i legali di Sabetta, gli avvocati Marco Vallone, Leonardo Amato e Manlio Abati – è proseguita un’azione di ostacolo, quantomeno professionale, nei confronti di Sabetta, testimone-chiave delle vicende che hanno portato al dissesto della Banca Popolare di Bari».