Le treccine afro fin sotto la schiena, bella e austera, porta sul viso l’orgoglio di essere donna. Flavia, 27 anni, sui documenti è ancora Flavio ma già a 18 anni, quando ancora viveva in Brasile, ha fatto il primo intervento per il cambio di sesso. Ora ne ha quasi 27, di interventi ne ha fatti ancora cinque, nei prossimi giorni andrà a Lisbona per un altro trattamento.
A Bari solo per alcuni periodi, nei mesi scorsi ha subito una discriminazione di genere, e non è una che lo manda a dire: assistita dal suo legale, l’avvocato Nicolò Nono Dachille, ha presentato una richiesta (per ora bonaria) di risarcimento “danni materiali provocati dal mancato allenamento e morali per le gratuite vessazioni subite di tipo diffamatorio che rendono solidalmente responsabile anche la struttura ospitante”.
Quello che lei definisce «un diritto negato, una libertà violata», ma anche «razzismo», sarebbe avvenuto in una palestra al quartiere Poggiofranco di Bari, scelta da Flavia per gli orari di apertura, a lei più congeniali.
«Vivo a Berlino – racconta lei – Lì mi sento molto più a mio agio, sono molto cosciente dei problemi sociali, anche perché mi ci confronto ogni giorno, sono molto grata all’Unione europea per avermi accolto, ma non posso fare finta di niente, non posso fare finta che loro non abbiano torto, che il mio diritto sia stato negato, che la mia libertà sia stata tolta dal loro comportamento».
I fatti sarebbero avvenuti in più episodi, in un crescendo che Flavia ha infine ritenuto insopportabile. Prima a gennaio, poi a marzo, aprile e l’epilogo la scorsa settimana. «Era un gruppetto di donne, tutte clienti e una dipendente del centro – racconta – mi guardavano mentre mi allenavo, ridacchiando, dandosi di gomito, e mi passavano accanto dicendo “che schifo”. Io non sono permalosa, non mi confronto con le altre, mi piace stare con tutte le razze e persone. Le ho sentite e ho fatto finta di niente». Giovedì scorso, quando Flavia era a metà del suo lungo allenamento, le battute di scherno sarebbero diventate intollerabili, al punto tale che ha preferito interrompere e rivolgersi al proprietario, invitandolo con calma a vigilare perché smettessero. «Gli ho detto che non andava bene, che non avevo voglia di discutere e che l’indomani sarei tornata per l’allenamento che avevo già pagato. Lui mi ha risposto: “Qui siamo tutti amici, hai i vermi in testa, mi sto innervosendo” e mi si è avvicinato minaccioso. Poi ha continuato: “Questa è casa mia, i muri sono miei, se non ti sta bene, vattene, facciamo un favore a tenerti qui”. Non volevano darmi nemmeno la ricevuta del pagamento, ma poi ci hanno ripensato e me l’hanno data».
Flavia racconta ed è un fiume in piena: «Quanto razzismo, quanta discriminazione – scuote le treccine – Io voglio la pace, così accadono i suicidi. Appena è successo, volevo dirlo a qualcuno, volevo giustizia, sono andata anche in Questura. Seguo sempre le regole, sempre il confronto. Voglio essere considerata come una persona qualunque, e quando mi tolgono il mio diritto, mi rendo conto che questa è discriminazione di genere. Loro si sentono liberi di dire certe cose, non sono in grado di avere un approccio che non finisca nei guai».
Lucida, pur nella mortificazione di quanto accaduto, prova anche ad analizzare i fatti: «Io non sono cresciuta in ambienti violenti – spiega – non ho mai subito nè ubriachezza né violenze di genere, non sono abituata ad avere addosso offese del genere. Io voglio che vengano giudicati e condannati, loro sono soddisfatti, godono del male che mi hanno fatto, per tutto questo, per il loro razzismo, non c’è denaro che tenga».