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Donne corrieri a Japigia e San Pasquale. Così i clan proteggono il traffico di droga

Clan «capaci di evolversi e di insinuarsi nei centri nevralgici del tessuto sociale produttivo, compresi quelli che necessitano di particolari competenze tecniche come il gioco d’azzardo e le scommesse on line». Ma non solo. L’analisi della Direzione investigativa antimafia sviscera anche altri aspetti suscettibili di monitoraggio. Sono clan, emerge anche, capaci di individuare nuove strategie…

Clan «capaci di evolversi e di insinuarsi nei centri nevralgici del tessuto sociale produttivo, compresi quelli che necessitano di particolari competenze tecniche come il gioco d’azzardo e le scommesse on line».

Ma non solo. L’analisi della Direzione investigativa antimafia sviscera anche altri aspetti suscettibili di monitoraggio. Sono clan, emerge anche, capaci di individuare nuove strategie proficue nell’ottica di ottimizzare i traffici di droga.

Una di queste, messa in piedi tra i quartieri Japigia e San Pasquale, punta tutto sul ruolo delle donne, utilizzate (fra l’altro) come corrieri, «elementi in grado di ridurre i sospetti delle forze dell’ordine e quindi eventuali controlli nel momento del trasporto delle sostanze stupefacenti».

Donne capaci di trasportare droga, ma anche di fare le postine dei loro uomini, mariti, figli, padri detenuti e nell’impossibilità di comunicare con il clan all’esterno. Sono loro, che dopo i colloqui in carcere, spesso portano i messaggi e le direttive ai sodali. Sono loro che, in condizioni di fibrillazioni interne, sono autorizzate a prendere decisioni per nome e per conto, gestendo attività illecite e decidendo le eventuali punizioni per chi non paga o sgomita nell’ambiente criminale.

L’allarme della commissione di esperti ritrova nell’attualità l’ennesimo risvolto di veridicità nella ricostruzione fatta dai carabinieri del pestaggio, al San Paolo, di Domenico Franco, ad agosto scorso. Un tranello nel quale l’affiliato al clan Strisciuglio era caduto, un pomeriggio di violenza nel quale le donne della famiglia Vavalle avevano avuto un ruolo importante. Mamma e sorella dei due fratelli Francesco e Giuseppe sono accusate dalla Procura antimafia di aver aiutato gli aggressori a scappare dopo il pestaggio, fornendo loro l’auto, avrebbero poi lavato le tracce di sangue lasciate nel retro del Gran Cafè, di loro proprietà, e a lungo avrebbero nascosto la verità agli inquirenti, compatte nel fornire alibi falsi ai loro familiari.

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