Nino da quella comunità nel tacco d’Italia è già scappato sei volte nell’ultimo anno. Anna invece è fuggita di casa a 15 anni, e nonostante i tre anni di percorso in un’altra comunità seguita dai medici del Serd, non ha lasciato la droga. Entrambi (ndr, i nomi sono di fantasia) sono la dimostrazione umana e dolente di una norma che non tutela, non salva.
Nino e Anna, figli di genitori disperati, a seguito di reati commessi, delle denunce di quei genitori disperati, sono stati collocati dal tribunale per i minorenni di Bari in comunità socio-educative della regione, e non in contesti dedicati a persone con dipendenze.
Perché, in realtà, la legge non prevede la possibilità per minorenni con dipendenze patologiche, di essere ospitati in strutture per tossicodipendenti. E allora, dopo i relativi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, sono stati destinati a quelle che un tempo si chiamavano “casa famiglia” dove la libertà personale non subisce particolari costrizioni e dove l’argine è rappresentato da un percorso di guarigione psicologica. Purtroppo, le due storie che raccontiamo hanno dimostrato che a volte, molte volte, non è sufficiente.
È la storia di Nino, che a 10 anni già faceva uso di droghe, sia leggere che pesanti, e alcol. Poi ha cominciato a frequentare un gruppo di spacciatori ed è diventato pusher in una piazza della provincia di Bari. I suoi genitori gli hanno parlato, lo hanno redarguito, implorato, ascoltato, punito e cacciato. Hanno parlato con le forze dell’ordine della zona, sono arrivati a pregarli di arrestare il loro figlio, mentre temevano per l’incolumità dei fratelli. Alla fine Nino è finito davanti ai giudici minorili, che hanno disposto la messa alla prova e collocato in comunità. All’inizio tutto procedeva, seguiva gli incontri con gli psicologi, frequentava la scuola e persino una palestra.
Voleva tornare a casa, ci ha provato più di una volta. Fino a quando, a febbraio scorso, componente di un “branco” non ha aggredito e picchiato con calci, schiaffi sferrati sul collo, altri ragazzini stranieri che frequentavano la sua nuova scuola, utilizzando espressioni in maniera dispregiativa, riferendosi alla nazionalità delle vittime d al colore della loro pelle, allo scopo di far “prevalere la loro forza intimidatrice e la loro superiorità” e costringendoli di fatto a vivere in un costante stato di ansia e tensione.
Anche Anna non è “guarita” dal suo male interiore che l’aveva spinta a scappare di casa a soli 15 anni e a spacciare in un gruppo di giovanissimi. Riconosciuta come abituale consumatrice di cannabis, è finita anche lei dinanzi al tribunale per i minorenni, che ha aperto anche un procedimento civile nei confronti dei genitori per incapacità educativa. Dopo decine di colloqui con uno psicologo, gli incontri obbligatori con i medici del Serd di Bari, ormai prossima alla maggiore età, non ha cambiato idea. L’ultimo provvedimento dei giudici, che le prescrivono di continuare quel percorso, le è stato notificato alla soglia dei 18 anni. E lei lo ha ignorato.