«La situazione delle carceri italiane è drammatica». A dirlo è Noemi Cionfoli, avvocata penalista e attivista dell’associazione Antigone.
In che condizioni vivono i detenuti?
«Precarie, spesso estreme. L’assenza di spazi, ad esempio, è una costante: solo nel 2022 lo Stato ha pagato oltre 27 milioni di euro di risarcimenti, in favore dei detenuti, per trattamenti inumani e degradanti, dovuti soprattutto al mancato rispetto della soglia minima dei 3 metri quadri di cui ciascuna persona deve poter fruire nella propria cella. La carenza di spazi vitali è un dato che Antigone ha concretamente riscontrato nel 35% degli istituti visitati».
Il problema del sovraffollamento è sottovalutato?
«Di sicuro non è adeguatamente affrontato. L’Italia ha un tasso medio di sovraffollamento pari al 119%. Guardando ai singoli istituti, il valore effettivo più alto, pari al 190%, si registra a Lucca, carcere in cui le condizioni di vita e di lavoro dei ristretti sono infatti estremamente complicate. Non a caso il numero dei suicidi continua a salire. Il 2022 è stato l’anno con più suicidi di sempre: in dodici mesi 85 persone si sono tolte la vita in carcere. Una ogni quattro giorni. Il numero più alto si è registrato nella casa circondariale di Foggia. E nel 2023 le cose non sembrano migliorare: sono già 33 le persone che hanno deciso di porre fine alla loro condizione di sofferenza all’interno di un istituto penitenziario».
Quali sono gli altri problemi?
«Uno dei più rilevanti è certamente la tutela della salute. Le patologie psichiche tra la popolazione detenuta sembrano essere in continuo aumento, mentre le risorse messe in campo sono sempre più scarse. Moltissime persone ristrette assumono farmaci antipsicotici e antidepressivi, o addirittura sedativi e ipnotici. Il lavoro di psicologi e psichiatri non è sufficiente, a causa del ridotto numero di ore settimanali di presenza negli istituti. Anche la salute delle donne è a rischio».
Che altro?
«La quasi totalità delle carceri presenta molte altre criticità: mancano il lavoro, soprattutto qualificato, e la formazione professionale, due strumenti essenziali per concedere una concreta alternativa di vita alle persone ristrette. E poi è grave la carenza di educatori rispetto alle previsioni di pianta organica. Anche sotto questo profilo ci sono situazioni limite: nel carcere romano di Regina Coeli, dove sarebbero previsti 11 educatori, ce ne sono solo 3, a fronte di circa mille detenuti. L’idea che ogni educatore debba occuparsi di circa 330 persone vanifica, in concreto, la prospettiva costituzionale di rieducazione dei condannati».
Quali potrebbero essere le soluzioni?
«Lo stanziamento di risorse è certo fondamentale, così come l’attenzione al tema, istituzionale e mediatica. Tuttavia, mi sembra altrettanto necessario uno sforzo collettivo a comprendere le complessità della questione sociale e antropologica che il carcere porta con sé. Ogni detenuto ha una storia personale di emarginazione, delusione, fallimento e desiderio di rinascita. Allo stesso modo direttori, educatori e operatori non sono solo numeri in pianta organica, ma custodi delle aspettative e delle potenzialità di chi affronta il difficile cammino verso la libertà. Un percorso che ciascuno di noi, idealmente o nel concreto, non può che sostenere. Perché l’idea populista di “buttare la chiave” non è la soluzione, ma una enorme parte del problema».