Si è proclamato innocente, punto e basta. Eugenio Palermiti, capo dell’omonimo clan arrestato lunedì scorso dagli agenti della Squadra Mobile di Bari, ha scelto di non rispondere, di restare in silenzio. E del resto, sarebbe sembrato strano il contrario, considerato il calibro di Palermiti, 69enne capostipite e boss del quartiere Japigia, “alzato” con il nono grado mafioso, prima braccio destro del “mammasantissima” Savino Parisi, poi suo pari nella gestione del traffico di droga.
Ieri mattina “Il Nonno”, assistito dagli avvocati Raffaele Quarta e Nicolò Pisani, è comparso in videoconferenza, dal carcere di Taranto dove è detenuto, dinanzi al gip Giuseppe De Salvatore, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare per numerosi reati: innanzitutto perché ritenuto il mandante del ferimento di Teodoro Greco, 69enne barese, attivo nella distribuzione dei quotidiani e a lungo “amico” di Palermiti.
Quei colpi di pistola calibro 9 che nel 2013 esplose Domenico Milella (poi diventato un importante collaboratore di giustizia), nelle intenzioni di Palermiti, secondo la Dda di Bari, sarebbero serviti per punirlo di essersi allontanato e di non avergli più fatto avere denaro e favori. Le altre accuse per cui sono scattate le manette sono di stalking, minacce e violenza privata nei confronti di tre collaboratori di giustizia, minacciati secondo le loro dichiarazioni per indurli a non testimoniare contro il figlio di Eugenio, Gianni Palermiti, all’epoca imputato e poi condannato, con il rito abbreviato, all’ergastolo per l’omicidio di Walter Rafaschieri e il ferimento di suo fratello Alessandro (vero obiettivo dell’agguato).
L’ossatura dell’indagine su Eugenio Palermiti, condotta dagli uomini della Squadra Mobile coordinati dal dirigente Filippo Portoghese, è infatti rappresentata dalle dichiarazioni di Milella, di Gianfanco Catalano e Domenico Lavermicocca, tutti a vario titolo “intranei” al clan e con un ruolo specifico. Per questo, secondo il pm antimfia Fabio Buquicchio, Eugenio aveva paura per suo figlio. Erano quindi partite le minacce, fatte personalmente e tramite terzi, direttamente o urlate per strada, l’isolamento nei confronti di chi, nel quartiere, era già ritenuto “un infame”, ancor prima che si decidesse a collaborare con lo Stato. Le pressioni perché lasciassero le loro abitazioni, dalle moglie di altri sodali alle loro.
E poi, come se non bastasse, Eugenio Palermiti quando ancora era in libertà, si era presentato all’udienza preliminare, svoltasi a porte chiuse (come prevede la legge) in cui Gianni era imputato. Nascosto dietro alcune persone, ma poi subito individuato, era in aula per controllare che gli avvocati fornissero al meglio il loro mandato difensivo.