«Ero solo una specializzanda, volevo esserne certa». E da specializzanda, Elisiana Lovero, oggi medico rianimatore all’ospedale di Monopoli, aveva per prima capito che Zaraj Tatiana Coratella Gadaleta soffriva di ipertermia maligna, una «condizione genetica, che scatena una reazione grave se vengono somministrate alcune sostanze, tra cui i gas anestetici».
Non fu ascoltata la dottoressa Lovero, e la dodicenne, ricoverata all’ospedale pediatrico Giovanni XXIII per ricomporre una frattura al femore, alle 15 del 19 settembre 2017, morì senza mai risvegliarsi.
Il racconto
Per oltre tre ore, ieri mattina la specialista ha testimoniato nell’aula al piano terra del Palazzo di giustizia, come teste della Procura nel processo a Leonardo Milella, primario del reparto di Anestesia e Rianimazione del Giovanni XXIII, imputato di omicidio colposo (assistito dall’avvocato Angelo Loizzi). Nell’ambito dello stesso procedimento, ha patteggiato una pena a 14 mesi di reclusione l’altro medico inizialmente indagato, l’anestesista Vito De Renzo.
La dottoressa Lovero quella mattina di cinque anni fa era in sala operatoria, per monitorare l’intervento che stava eseguendo l’equipe di ortopedici. Ma dopo pochi minuti notò che c’erano valori anomali e fermò l’operazione per somministrare farmaci. «Ma nonostante questo, notavo che i valori di CO2 nel sangue continuavano a salire. La bambina era tachicardica – spiega – E dissi ad alta voce: “Vuoi vedere che è una ipertemia maligna?”. Ma non conoscevo la storia genetica, ed era solo un’ipotesi. Allora cercai di misurare la temperatura».
Il termometro
«In sala operatoria non c’era una sonda termica, chiesi un termometro e sospesi per l’ennesima volta l’intervento. Mi dissero: “Lo dobbiamo trovare”, e allora nel frattempo mi preoccupai di sapere dove fosse il farmaco antidoto solitamente usato per l’ipertermia, il Dantrolene, ero lì da sole due settimane e non conoscevo tutti i posti».
Il farmaco fantasma
«Il caposala mi rispose: “Dottoressa, non ci sta, da quando è scaduto, non lo abbiamo più comprato”. Non mi sembrava possibile, cercammo anche nella stanza dei farmaci, allora pensai che fosse fuori posto. Il Dantrolene fa parte della dotazione obbligatoria della sala operatoria, è scritto anche nelle linee guida. Io non ci credevo. Tornai rapidamente dalla bambina, le misi la mano sulla fronte ed era calda, mi portarono un termometro ma non funzionava. Volevo che arrivassero i medici per chiudere il gas anestetico, io non potevo farlo».
Il peggioramento
«Arrivò il dottor De Renzo, gli dissi che secondo me era ipertermia maligna, lui lo escluse, avrei voluto fare un emogas per vedere se c’era acidosi, uno dei sintomi della patologia, ma mi fece uscire, dicendo “continuo io”. Dopo altri minuti uscirono gli ortopedici, io rientrai e vidi che ventilavano a mano la bambina, i monitor suonavano tutti insieme, il dato della CO2 era superiore al 31 per cento, spaventosamente alto, oltre non rileva. Lei era tachicardica e ipotesa, il dottor De Renzo mi disse di aver chiamato il dottor Milella e le misurò la temperatura, aveva 37,9, ma in sala operatoria anche 37 sarebbe stata alta. Arrivò Milella e disse: “Questa è un’embolia polmonare”, non ero d’accordo ma non si poteva escludere, finalmente decisero di chiudere il gas. Chiamarono la cardiologa, fecero l’emogas e il risultato confermò i miei timori. Eravamo in tanti, ci dissero: “Allontanatevi”, mi feci indietro ma rimasi a guardare. La macchina per l’elettrocardiogramma non funzionava, poi ne arrivò un’altra. Somministrarono un farmaco per rallentare il battito, il dottor Milella ipotizzò un pneumotorace o una malattia del ritmo cardiaco. Intanto la pressione scendeva ancora».
La terapia intensiva
«Trasportata in Terapina Intensiva, il dottor Milella chiese di fare l’ecocardio, che escluse l’embolia. Allora gli dissi: “Dottor Milella, mi scusi, ma di fronte a questi parametri, non è che ci troviamo di fronte a una ipertermia maligna?”. E lui mi disse che sì, poteva essere. Misurammo la temperatura, era salita a 43. Lui ordinò di raffreddarla immediatamente e di sottoporla a dialisi e urlò: “Portatemi il Dantrolene”. Per me fu liberatorio, l’avrebbero salvata. Il dottor Milella fece chiamare il caposala e pensai che si sarebbe risolto tutto. Poi il dottor De Renzo mi chiese di accompagnarlo dal padre per dirgli che la bambina era in Terapia Intensiva, quando tornai alle 13 i parametri erano peggiorati e lei era completamente coperta dal ghiaccio. Fu solo allora che vidi un infermiere con una boccetta che conteneva una polvere rossa, il Dantrolene. Tornai a casa, verso le 17 telefonai per sapere come stesse, la mia speranza interiore aveva avuto il sopravvento sulla diagnosi, sull’evidenza che non c’era già più scampo. Mi dissero che la bambina era morta».
Le nuove indagini
Sono due le denunce avviate dal legale del papà di Zaraj, l’avvocato Michele Laforgia. La prima, contro il caposala (che non è mai stato indagato) relativa alla sua responsabilità sulla mancanza del Dantrolene. Dopo aver avviato le indagini su di lui, la pm Bruna Manganelli ha chiesto l’archiviazione contro la quale si è opposto l’avvocato Laforgia, e la gip gli ha dato ragione. La posizione dell’infermiere, dunque, è ancora al vaglio della Procura.
La seconda, invece, è relativa all’assenza del farmaco salvavita dalla sala operatoria dove, per legge, ne dovrebbero essere conservati 48 flaconi. Le indagini accertarono, dopo il decesso della dodicenne, la presenza di 12 boccette, la cui provenienza è ancora sconosciuta. Al vaglio degli inquirenti un biglietto anonimo, fatto pervenire al papà di Zara, nel quale si sèiegava che il farmaco salvavita quel giorno arrivò dalla farmacia del Policlinico. Durante le indagini, invece, il dottor Milella dichiarò di averlo somministrato già in sala operatoria e durante la corsa in Terapia Intensiva.