L’educazione a livello globale non sta vivendo un periodo positivo: è dei giorni scorsi la notizia del taglio del 92% dei fondi, voluto dall’amministrazione Trump, sui progetti di sviluppo finanziati da Washington soprattutto in Africa e Oceania, che sta avendo un impatto catastrofico sulla vita di milioni di persone così come su migliaia di posti di lavoro nei Paesi nei quali quei programmi erano stati avviati e in tutto il mondo. Maria Paradies, nata e cresciuta ad Andria e ora con base a Torino perché ha vinto un dottorato all’università di Ginevra, ha passato anni a lavorare per le organizzazioni internazionali come ONG, UNICEF, Commissione Europea – DG ECHO, approfondendo in particolare l’impatto che guerre e disastri hanno in campo scolastico e formativo in tutto il mondo: Brasile, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gibuti, Etiopia, Italia, Iraq, Giordania, Kenya, Madagascar, Mozambico, Niger, Filippine, Senegal, Sudan del Sud, Sri Lanka, Uganda.
Qual è il campo di ricerca attuale?
«Il campo di ricerca resta sempre quello dell’educazione in situazioni di emergenza e di crisi protratte: conflitti, disastri naturali, pandemie e crisi irrisolte che durano decenni, tanto per spiegarci. Al momento la mia ricerca per il dottorato vuole approfondire i temi legati all’inclusione dei rifugiati nei sistemi educativi nazionali. In particolare vado a “zoommare” su l’educazione per i rifugiati: cosa significa educazione in emergenza, quando è nata come un campo di ricerca».
Quali sono le ripercussioni delle decisioni del Governo americano guidato da Donald Trump?
«La recessione finanziaria nell’assistenza umanitaria è già iniziata qualche anno fa: le crisi sono tantissime e sempre di più, i bisogni in crescita in giro per il mondo e i donatori hanno iniziato a ridurre il loro contributo a livello globale, soprattutto i principali donatori che sono Stati Uniti, Paesi Bassi, Germania, Gran Bretagna e altri Paesi europei. Certamente le misure di Trump e lo smantellamento di UsAid hanno avuto delle conseguenze catastrofiche. Dal punto di vista proprio umano, hanno avuto un impatto incredibile sulle popolazioni vulnerabili e colpite dalle crisi perché tanti dei servizi essenziali sono stati interrotti mettendo milioni di vite a rischio.
Questo funding freeze ha un impatto sulle popolazioni che vivono in situazioni di crisi emergenze ma anche sulle organizzazioni che svolgono e implementano progetti, programmi per supportare queste popolazioni, e poi tutta la catena che c’è nel sistema umanitario. Non dobbiamo dimenticare che nel 2024 i finanziamenti degli Stati Uniti all’assistenza umanitaria rappresentavano quasi il 42% dei contributi globali: le persone nelle ultime settimane sono state letteralmente mandate a casa da un giorno all’altro, i contratti sono stati cancellati per le organizzazioni, per i contractors, per i consulenti come me, per non parlare poi delle persone che beneficiavano dei servizi sostenuti e implementati grazie ai fondi americani che da un momento all’altro si trovano senza nulla».
Qual è la situazione dell’educazione e dei finanziamenti dedicati nel mondo?
«Siamo di fronte a numeri spaventosi, con l’idea che dietro le cifre ci sono persone con diritti come tutti gli altri: al momento sono più di 120 i conflitti attivi a livello mondiale, secondo le stime dell’ICRC. Un report dell’Onu parla di 234 milioni di bambini e bambine che vivono situazioni di crisi in tutto il mondo: 3 anni fa erano “solo” 200 milioni. Quasi il 40% sono “fuori dalla scuola”, non hanno accesso a nessun tipo di apprendimento. C’è il caso di Gaza, dove è in atto un vero e proprio “scolasticidio”, un annichilimento del sistema educativo: al momento l’88% delle strutture scolastiche hanno bisogno di interventi strutturali seri, e oltre 658 mila bambini non hanno avuto la possibilità di usufruire di formazione dall’ottobre 2023. Ma anche le crisi climatiche stanno crescendo e con esse le chiusure delle scuole per il troppo caldo: potrebbe tranquillamente succedere anche in Puglia.
L’educazione life saving è sempre il settore meno finanziato di tutti in emergenza perché c’è questa idea che i settori critici siano naturalmente quello alimentare, della salute, dello shelter, del wash. L’educazione è però “salvavita” per una serie di motivi: perché protegge, perché crea il senso di routine, perché aiuta con il supporto psicosociale, perché nei centri temporanei di apprendimento o nelle scuole – se ci sono – durante i primi mesi in seguito a un’emergenza si fanno tante campagne di sensibilizzazione. Per esempio noi in Iraq facevamo formazione per fare riconoscere ai bambini i pezzi di artiglieria inesplosi. In più attraverso i programmi educativi si imparano i life skills: gestire le emozioni, socializzare, risolvere i problemi ma anche competenze pratiche come riconoscere e non toccare mine antiuomo, non bere l’acqua che non è potabile, lavarsi le mani dopo aver fatto i propri bisogni per non prendere colera e via».