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Dalla Puglia agli USA: per Laura Alicino una borsa di studio mondiale

Ha un brillante futuro davanti, dopo aver studiato a Bologna e aver girato il mondo. Lei è la 38enne Laura Alicino, ricercatrice andriese in letterature ispanoamericane, che ha vinto una delle ambitissime borse di studio internazionali post-dottorato intitolate a Marie Skłodowska-Curie, un’occasione unica ai ricercatori post-dottorato che desiderano espandere i loro orizzonti e migliorare le…

Ha un brillante futuro davanti, dopo aver studiato a Bologna e aver girato il mondo. Lei è la 38enne Laura Alicino, ricercatrice andriese in letterature ispanoamericane, che ha vinto una delle ambitissime borse di studio internazionali post-dottorato intitolate a Marie Skłodowska-Curie, un’occasione unica ai ricercatori post-dottorato che desiderano espandere i loro orizzonti e migliorare le loro opportunità sul mercato del lavoro e prospettive di carriera. Laura si è aggiudicata la Global Fellowship, che ha una durata di tre anni e prevede i primi due anni in un’istituzione non europea e poi il ritorno in Europa per l’ultimo anno di ricerca in un Paese che può essere quello di origine: in questo caso tornerà in Italia, e in particolare all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dopo due anni presso la University of North Carolina di Chapel Hill negli Stati Uniti, dove si trova attualmente.

Un progetto di ricerca ambizioso. Quale obiettivo si è posto?

«Tracciare alcune linee relative alle opere poetiche documentali del ventunesimo secolo che hanno come tema principale la violenza estrema nei confronti dell’altro in America latina. Parlo di violenze istituzionali, quindi dei desaparecidos, in tempo di democrazia, sparizioni forzate, violenza sui migranti, violenza di genere, ogni tipo di violenza che questi autori decidono di sviluppare. Nel contesto ispanoamericano, ma anche a livello internazionale, ha cominciato a farsi strada un tipo di poesia che è stata definita documentale, che inserisce nel corpo del testo vari tipi di documenti che possono essere documenti d’archivio, report etnografici, prodotti di internet, prodotti dei movimenti sociali, bibliografie, note, insomma tutti quei materiali che non sono stati creati dall’autore».

C’è una novità?

«Si, sta nel fatto che questi autori hanno cominciato in modo insistente, massivo a inserire nel corpo del testo non soltanto l’informazione, quindi la storia in sé contenuta nel documento che viene poi rielaborata nel testo letterario, ma anche il documento stesso come materialità, creando un corto circuito estetico che mette in evidenza come la scrittura possa in realtà essere un processo plurale di costruzione di cui fanno parte varie autorialità.

Quella degli autori che manipolano il testo ma anche quella del documento in cui viene fuori la voce delle vittime. Nel corpus degli autori che studio ci sono poetesse e poeti che lavorano con i documenti d’archivio dei sopravvissuti alla Shoah e rifugiati in Venezuela, oppure con le testimonianze e i documenti giornalistici relativi alle violenze di molti migranti che dal Sud America viaggiano verso il Messico per provare poi ad entrare negli Stati Uniti, oppure con le testimonianze dei cosiddetti cocaleros cioè le contadine, i contadini sfruttati nei campi di coca in Colombia».

Dove vuole arrivare?

«Quello che voglio scoprire, lavorando a stretto contatto non soltanto con le poetesse e i poeti ma anche con i soggetti di questa poesia, è come la letteratura posso rappresentare un lavoro di costruzione collettiva di una memoria sulla violenza e quindi essere uno strumento e un veicolo di cambiamento sociale, cercando di spiegare all’Unione Europea e alle istituzioni internazionali la vitale importanza di finanziare progetti cooperativi di questo genere».

Quali le maggiori differenza tra l’università italiana e l’università americana?

«La prima differenza sostanziale è sicuramente quella economica: le università statunitensi sono notoriamente costosissime e questo si sposa anche con la visione dell’accesso ai benefici che hanno dal punto di vista culturale gli Stati Uniti anche col welfare. Un’altra grande differenza rispetto all’Italia sono le strutture: ce ne sono veramente all’avanguardia, centri di ricerca incredibili, e questo è il risultato di una maggiore attenzione da parte della politica perché gli Stati Uniti investono tantissimo nell’istruzione e nella ricerca, cosa che invece l’Italia non fa e le università devono ogni anno lottare per avere la loro porzione di sostentamento da parte dello stato».

Ma il punto è: diamo all’università Italiana di strumenti per poter esprimere tutto il potenziale che potrebbe avere?

«Purtroppo no. E queste sono scelte politiche. Per quanto riguarda la preparazione e la costruzione dei saperi, se c’è una cosa che sicuramente non dobbiamo farci insegnare è la nostra capacità di proporre in Italia un’istruzione con un approccio olistico alla vita, alla società. Invece ho l’impressione che gli Stati Uniti creino dei perfetti specialisti su determinati temi ma poi sia per loro a volte complesso avere una visione d’insieme. Infatti gli italiani continuano ad essere i cervelli più desiderati all’estero; anche a livello di borse di studio, gli italiani ne vincono tantissime, purtroppo solo all’estero perché lì la politica investe su questo».

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