Parigi, la luce e il teatro. Cosimo Mirco Magliocca ha trasformato la passione nata a dodici anni in una carriera internazionale, fatta di scatti sospesi tra musica e scena. Dalla Bretagna alla capitale francese, fino ai grandi palcoscenici europei, il fotografo italiano racconta il suo viaggio con la semplicità di chi sa che, dietro ogni immagine, c’è sempre un attimo in cui batte il tempo. Da oggi, gli scatti di Magliocca saranno a Barletta, con la personale «Scatti di Scena», ospitata a Palazzo della Marra fino al 30 settembre.
Salve Mirco, vorrei partire dall’inizio. Come si è avvicinato alla fotografia?
«Per gioco. Un corso alle scuole medie, con insegnanti che ci fecero scoprire la fotografia. Stampe in camera oscura, poi un concorso sull’ecologia che vincemmo. Avevo dodici anni, e quella curiosità non mi ha più lasciato».
Guardando le sue immagini si avverte una sensibilità che sembra maturata col tempo. Quando fotografa sembra quasi anticipare l’attimo, scattare un secondo prima che la scena accada. È una scelta tecnica o qualcosa di istintivo?
«È qualcosa di naturale. Io non scatto mai a raffica. I miei scatti sono singoli, silenziosi. Quando sono in teatro o a un concerto, mi lascio trasportare dalla musica. La musica, o il respiro di un attore, mi annunciano che qualcosa sta per accadere. È questione di ascolto e di concentrazione, di una tensione che si alza all’improvviso e diventa immagine».
Lei vive da anni in Francia. Come è nata questa scelta?
«In realtà il progetto iniziale era New York. Mi stavo preparando per quello, ma in quegli anni le frontiere erano complicate, ottenere un visto era difficile. Così ho scelto l’Europa: sono andato prima in Bretagna, dove sono rimasto un paio d’anni, poi a Parigi. Avevo qualche conoscenza, e soprattutto la voglia di vivere in una grande città. Una volta lì, è successo tutto molto in fretta: ho iniziato a collaborare con alcuni teatri, e da quel momento non mi sono più fermato».
Si ricorda la sensazione del primo arrivo a Parigi?
«Venivo dalla Bretagna e andavo a trovare un’amica. Tutti mi avevano avvertito: “Attento, a Parigi il pesce grande mangia il pesce piccolo”. Io non mi sono mai fatto spaventare da queste cose, anzi, mi motivano. Però quando sono arrivato sulla tangenziale e ho visto quel tappeto infinito di luci mi sono detto: “Ma che ci vengo a fare qui?”. Eppure è lì che ho trovato la mia strada, e oggi continuo a lavorare con i principali teatri francesi».
Come è entrato in quel circuito con tanta rapidità?
«Per caso, o per destino. Frequentavo ambienti di musicisti e artisti. Una sera, durante una cena, proiettai cento diapositive: scatti senza alcuna pretesa. Tra gli ospiti c’era un uomo della Comédie-Française, che poi mi chiamò: “Perché non viene a scattare con noi?”. Al primo appuntamento non andai, per imbarazzo. Mi richiamò. Allora si lavorava in analogico, uno scatto ogni mezz’ora. Quando videro le foto, iniziarono quindici anni di contratti. Poi l’Opéra di Parigi, altre produzioni, altre compagnie. Nessun curriculum, nessuna raccomandazione: solo le foto. Così allora, così oggi».
Lei espone al Palazzo della Marra, a pochi passi dalle opere di De Nittis. C’è qualcosa, nel suo approccio alla luce, che sente vicino al suo sguardo?
«La vita è fatta di coincidenze, e il mio passaggio a Parigi è stato un fato. Non mi sono mai ispirato a De Nittis, ma la pittura mi ha sempre attratto. Forse condividiamo una tensione verso la luce. Nel suo lavoro sento una malinconia che per me è bellezza sottile. Nelle mie foto c’è spesso un’atmosfera pittorica, merito anche delle luci di scena e di chi le crea: light designer, registi, direttori artistici. Il segreto è esserci, nel momento preciso in cui la luce cambia e la scena si apre. Durante le prove, in sala, mi muovo come se gli attori recitassero solo per me».
Il teatro è movimento, la fotografia immobilità. Come tiene insieme queste due dimensioni?
«Per me la fotografia è una metafora: non esiste finché non si materializza attraverso la macchina. Tutti possono scattare, ma è la sensibilità a fare la differenza. Il movimento è nell’occhio: la mente ricompone ciò che l’obiettivo ferma, trasformando a volte uno scatto in un fotogramma sospeso».
Quando fotografa un attore o un musicista, cerca qualcosa in particolare?
«No. Fuori scena un attore è semplicemente un uomo o una donna. In scena diventa il personaggio che interpreta, e io fotografo quel personaggio. Alcuni artisti li riconosco a malapena fuori dal teatro: sul palco hanno una presenza scenica che li trasforma, quasi li ingrandisce. Il mio compito è esserci, pronto, senza forzare nulla».
C’è uno scatto della mostra al quale è particolarmente legato?
«Ogni fotografia è come un figlio. Ma ci sono ricordi che restano. In questa mostra, per esempio, c’è una foto tratta dall’opera Rusalka. Era una produzione incredibile, con una piscina in scena: cantanti e ballerini entravano e uscivano dall’acqua con una poesia straordinaria. Quando il regista ha visto le immagini, ha iniziato a urlare di gioia nella hall dell’hotel».
Crede che il suo percorso sarebbe stato lo stesso se fosse rimasto in Italia?
«No. L’Italia è un paese straordinario, un museo a cielo aperto. Ma all’estero ho trovato opportunità e risorse che qui sarebbe stato difficile immaginare. Viaggiare ti arricchisce, impari lingue, entri in contatto con altre culture. E poi, in qualche modo, diventi ambasciatore di quella bellezza che porti dentro. Me lo dicono spesso: le mie foto hanno un’impronta italiana, sembrano quadri».
C’è un teatro nel mondo dove non ha ancora lavorato e dove sogna di entrare?
«Il Metropolitan di New York. Ci sono andato vicino, poi non è andata. Nel frattempo, mi godo quello che ho: produzioni in Francia, in Italia, lavori in America. E il privilegio di continuare a raccontare, con le immagini, la magia del palcoscenico».