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Alluvione a Valencia, Napolitano: «Era tutto sommerso ma dovevo salvare una vita» – L’INTERVISTA

Meno di 36 ore per portare a termine una missione salvavita. Non vuole essere definito un eroe, Massimiliano Napolitano, ma ciò che ha compiuto in Spagna la notte fra lunedì e martedì scorsi, di certo può essere considerato un gesto eroico. Volontario del Nucleo operativo di Protezione civile, Napolitano, da Barletta, dove vive, ha intrapreso…

Meno di 36 ore per portare a termine una missione salvavita. Non vuole essere definito un eroe, Massimiliano Napolitano, ma ciò che ha compiuto in Spagna la notte fra lunedì e martedì scorsi, di certo può essere considerato un gesto eroico. Volontario del Nucleo operativo di Protezione civile, Napolitano, da Barletta, dove vive, ha intrapreso un viaggio verso Valencia, con l’obiettivo di consegnare il midollo osseo a un malato in attesa di trapianto. Il contenuto di quella preziosa valigetta-frigo, però, avrebbe permesso di salvare una vita solo se utilizzato entro 36 ore. E così, è scattata una vera e propria corsa, non solo contro il tempo, ma anche contro la devastazione che l’alluvione ha provocato nel territorio di Valencia.

L’aereo a bordo del quale viaggiava non è mai arrivato a Valencia, ma è stato dirottato a Barcellona. In quel momento, ha mai pensato di rinunciare?

«Assolutamente no. Molti dei passeggeri hanno deciso di non proseguire, li capisco. L’inondazione era già in corso e viaggiare era pericoloso. Ma io non potevo fermarmi. Sapevo che nel mio frigo c’era una speranza di vita, e finché avessi avuto una via percorribile, sarei andato avanti. E allora, ho preso un bus che dall’aeroporto di Barcellona mi ha portato fino a quello di Valencia».

E che situazione ha trovato arrivando lì?

«L’aeroporto era completamente sommerso, nessun collegamento e parte della linea ferroviaria distrutta. Ero bloccato, o almeno così sembrava. La fortuna ha voluto che, una coppia spagnola di rientro dalle vacanze, che avevo conosciuto su quel bus, aveva lasciato l’auto in aeroporto. Addirittura, il fratello della signora lavorava nello stesso ospedale di Valencia dove ero diretto io. Non ci ho pensato due volte. Sono stati loro a darmi un passaggio in auto, sfidando quell’inferno di pioggia e fango. Nonostante il rischio, hanno voluto aiutarmi. Senza di loro, non so come avrei fatto».

L’intervento è andato a buon fine?

«Tutto è andato per il meglio, nonostante le difficoltà e vari ostacoli incontrati. Ma sapevo che ogni minuto era prezioso e che consegnare quel frigo con il midollo osseo era come deporre un pezzo di speranza in più per quella persona e per la sua famiglia. Quando l’ho consegnato, tutte le ore di viaggio e tutte le difficoltà hanno trovato senso. Questo, del resto, è quello che provo ogni volta che riesco a rendermi utile con una missione, da volontario».

Non è stata la prima volta, quindi?

«Ho portato a termine circa 70 missioni negli ultimi due anni. L’anno scorso, più o meno nello stesso periodo, ero a Tel Aviv. Ma nemmeno le bombe mi hanno fermato. Noi volontari siamo monitorati costantemente, anche dalla Farnesina, grazie a sistemi tecnologici e alla geolocalizzazione. La sicurezza non è mai sottovalutata, anzi direi che è prioritaria».

Cosa la spinge a intraprendere una missione?

«Alcuni miei familiari sono morti a causa della leucemia. So cosa vuol dire perdere qualcuno. Poter fare qualcosa per gli altri mi fa sentire utile. È un’esperienza che fa bene all’anima sapere di poter in qualche modo contribuire affinché dei genitori non perdano i loro figli o un figlio possa riabbracciare i propri genitori e superare le difficoltà».

Quale ricordo conserverà di questa esperienza?

«Il potere della solidarietà. A dire il vero noi volontari ci troviamo spesso in contesti difficili, ma sapere che esistono persone come la coppia spagnola che ho incontrato e che ha avuto il coraggio di agire, nonostante le difficoltà, rappresenta una grande speranza per l’umanità. E credo che tutti ne abbiamo bisogno».

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