«L’ultima ragazzina che abbiamo seguito aveva quattordici anni, forse quindici. Raccontava di rapporti sadomaso consumati di nascosto, dietro casa. E un altro, tredicenne, già conosceva pratiche anali e l’uso di strumenti. Ma davvero le scuole devono preoccuparsi della “teoria del gender”?»
Le parole di Giuseppe De Robertis, dirigente dei servizi sociali di Andria, arrivano come uno schiaffo alla tranquillità apparente di una società che evita ancora oggi di parlare apertamente di educazione sessuale.
Dietro i numeri e le statistiche ci sono storie di adolescenti fragili, disorientati, cresciuti in un mondo iperconnesso, ma povero di strumenti per decifrarlo. «Molti di loro – racconta De Robertis – si espongono sui social cercando approvazione. Mandano foto intime a sconosciuti, spesso adulti che si spacciano per coetanei. E quando i genitori scoprono tutto, è già tardi. Quello che emerge è pochissimo, il sommerso è enorme».
Il vuoto educativo
Nel racconto del dirigente si intrecciano due carenze: quella delle famiglie e quella della scuola.
La prima, spesso prigioniera del tabù: «Parlare di sesso in casa – spiega – è ancora un argomento proibito. Ma non possiamo chiedere ai genitori di affrontarlo se non diamo loro strumenti e linguaggi adeguati. Il rischio è che il silenzio diventi il terreno fertile per il pericolo».
La seconda, quella della scuola, è una ferita strutturale. In Italia, l’educazione affettiva e sessuale è oggi nel mirino del Governo col Ddl Valditara sul consenso informato. «Senza spazi espliciti di confronto – continua De Robertis – , tutto ciò che non viene detto finisce per scorrere in sotterraneo. E quando qualcosa non può essere nominato, non può nemmeno essere capito.»
Mondo digitale senza bussola
La testimonianza si fa ancora più cruda quando De Robertis parla dei casi di diffusione di materiale pedopornografico: «Abbiamo seguito ragazze di tredici, quattordici anni che inviavano foto intime a sconosciuti conosciuti online. In alcuni casi, i genitori sono riusciti a rintracciare l’adulto dietro il profilo falso. Ma nella maggior parte dei casi, resta tutto invisibile.»
È un fenomeno che si muove nel buio di Internet, dove l’identità è fluida e la consapevolezza dei ragazzi quasi nulla. «Spesso non c’è una motivazione logica – spiega – “Me le ha chieste e gliele ho mandate”. Non c’è percezione del rischio, né del valore del proprio corpo.»
Il paradosso del tabù
Dietro questo scenario, emerge un paradosso: il tabù serve da protezione, ma il silenzio genera vulnerabilità.
«Il tabù – spiega De Robertis – ha una funzione di filtro, serve a contenere certi impulsi. Ma se si rompe senza maturità, può diventare pericoloso. Tuttavia, il problema è che non abbiamo mai insegnato ai genitori come parlarne, e ora chiediamo loro di farlo da soli. Li abbiamo lasciati senza strumenti.»
La prevenzione è necessaria
Gli esperti lo ripetono da anni: l’educazione sessuale non è un invito alla sessualizzazione precoce, ma un percorso di conoscenza, rispetto e prevenzione.
Serve per parlare di consenso, di corpo, di identità, di emozioni, di rischi digitali. Serve per evitare che siano i social, i coetanei o i contenuti pornografici a sostituirsi alla scuola e alla famiglia.
Nel silenzio collettivo, però, crescono la solitudine e la confusione. «È un mondo difficile – conclude De Robertis – e quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg. Sotto c’è un mare di fragilità, che si può affrontare solo se torniamo a dare parole, spazio e ascolto ai nostri ragazzi.»