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Nahaze: «“Amici”? Una palestra. Non cerco una hit ma una fanbase che resti» – L’INTERVISTA

Un dialogo con Nahaze significa attraversare con lei un paesaggio di ricerca, vulnerabilità, disciplina e suono. L’artista lucana classe 2001 – all’anagrafe Nathalie Hazel Intelligente – racconta il proprio percorso con chiarezza e profondità, senza cedere a pose o sovrastrutture. Dall’infanzia con la musica sempre accesa in casa, al trampolino di Amici, fino alla collaborazione con Achille Lauro: il viaggio è appena cominciato, ma la direzione è chiara. E in continua evoluzione.

Come si è avvicinata alla musica? Quando ha capito che sarebbe stata una parte fondamentale della sua vita?

«Non so se c’è stato un momento preciso. Per me la musica è sempre stata una presenza interna. Mia madre raccontava che da piccola, appena partiva una canzone, iniziavo a muovere la testa senza nemmeno rendermene conto. Era qualcosa che veniva da dentro. Poi, certo, ci sono stati anche gli stimoli esterni: sono cresciuta in una casa in cui si ascoltava molta musica, piena di strumenti».
Fin da giovanissima ha avuto l’opportunità di collaborare con artisti importanti. È stato in quel momento che ha capito che la musica sarebbe stata il suo lavoro e non solo una passione?
«In realtà il lavoro è iniziato prima. A sedici anni andavo già in studio, mi autofinanziavo con l’aiuto dei miei genitori, suonando ovunque capitasse. Volevo trasformare la passione in un mestiere. La collaborazione con Lauro è arrivata più tardi, ma senza quella visione iniziale, quella volontà precisa, non sarebbe mai successo nulla».

Come ha conosciuto Achille Lauro?

«Avevo fatto un concerto e, dopo quell’esibizione, gli è stato mandato un video in cui cantavo. Poco dopo mi hanno contattata per incontrarmi. Quando sono arrivata, c’era anche lui. Mi hanno chiesto di far ascoltare due miei brani, tra cui Carillon, che avevo già scritto. È piaciuto molto, e da lì è nata l’idea di avviare una collaborazione».

Ha nominato Matera, sua città natale. L’ha mai sentita come una terra fertile per chi fa musica?

«Purtroppo no, non fino in fondo. Manca quella spinta ulteriore che solo una città più grande, più concentrata sul lavoro creativo, può darti. Nell’ambito dell’intrattenimento, c’è ancora tanta strada da fare lì».

Essere Capitale Europea della Cultura nel 2019 ha lasciato un’eredità alla sua terra?

«Sì, assolutamente. È stato uno stimolo importante. Ricordo i Sassi prima di quell’evento: erano quasi deserti, con pochissimi turisti e pochi alberghi. L’impatto sul turismo è stato enorme. Sulla gestione dell’evento in sé non so dire, perché ormai manco da un po’».

Altro passaggio fondamentale della sua carriera è stato “Amici”. Cosa le ha lasciato?

«Tantissimo. È stata una delle esperienze più importanti della mia vita, non solo della carriera. Mi ha insegnato davvero cosa significa mettersi in gioco, non avere paura, non potersi permettere di fermarsi. Quando hai un momento di ansia e pensi di non farcela, lì non puoi tirarti indietro».

Si vive una grande pressione in quel contesto?

«Sì, eccome. È una scuola vera, con ritmi serrati. Ogni settimana devi preparare un pezzo e portarlo in onda, su una rete nazionale. C’è stress sia sul piano professionale che su quello umano».

È un’ansia che arriva da fuori o nasce da dentro?

«È più interna. Il momento dell’esibizione in sé, paradossalmente, è quello più liberatorio. Hai lavorato così tanto sul pezzo che ti senti preparata. La vera pressione arriva prima, durante la preparazione, e anche dopo, quando arrivano i giudizi e i commenti del pubblico. Sei esposta costantemente».

Questa esposizione le ha dato visibilità prima ancora che raggiungesse una definizione artistica completa. Si sente ancora in evoluzione?

«Sì, e spero di esserlo sempre. Credo che questo lavoro richieda un’evoluzione continua. Mettere radici va bene, trovare certezze è utile, ma non bisogna smettere di cercare. Amo scoprire fin dove può arrivare la voce, sperimentare nuove tematiche. La staticità non fa per me».

Nella sua scrittura si avverte spesso un senso di instabilità, quasi un equilibrio precario. È qualcosa che vive anche nella quotidianità?

«Assolutamente. Eppure ho una casa, una famiglia, amici stabili. Tutto attorno a me sembra in ordine. Eppure dentro c’è sempre una ricerca, qualcosa che manca o che deve ancora emergere. Penso che venga da lì quel senso di disequilibrio».

Il brano “Burnout” sembra proprio il racconto di un tentativo di fuga da una pressione eccessiva. È questo che voleva raccontare?

«In parte sì. Ma parlo più che altro di un burnout relazionale. Nel lavoro il rischio esiste, ma ho la fortuna di potermi gestire: non ho un ufficio in cui timbrare il cartellino ogni mattina. Il burnout che ho vissuto io è stato più interiore: arrivare a un punto in cui non ce la fai più, ti svuoti».

Come ne è uscita?

«Fermandomi. Prendendomi del tempo. Mi ha aiutato molto il tornare a guardare le cose belle che avevo attorno: la famiglia, gli amici, una stabilità affettiva. Non è tutto solo lavoro».

Com’è la sua giornata tipo quando non è in tournée? Scrive ogni giorno?

«No, non scrivo tutti i giorni. Paradossalmente, sviluppo le idee più in studio. Nella quotidianità, magari esco a camminare, prendo un caffè, mi viene un’intuizione, scrivo due righe nelle note del telefono. Poi, se la tematica mi sembra adatta, la porto in studio e la elaboro. È un lavoro che richiede anche di vivere, fare esperienze, incontrare persone. Senza questo, i pezzi magari vengono bene, ma non dicono nulla davvero».

Ha mai pensato di allontanarsi dalla musica?

«Il pensiero arriva, ogni tanto, ma lo allontano subito. Mi dico: “Non voglio pensarci, almeno non adesso”. Per ora continuo a dare il massimo».

Sta lavorando a una nuova direzione sonora?

«Il mio obbiettivo in questo momento è scrivere di più in italiano. Sto cercando di dare più spazio alla melodia, di alleggerire un po’ il testo. Vengo da un approccio molto “rap”, pieno di incastri e parole, ora voglio iniziare a cantare di più».

Quanto è istinto e quanto è disciplina, nella sua musica?

«All’inizio pensavo fosse tutto istinto. Poi ho capito che c’è molta disciplina. Tantissima. Da Amici in poi, osservando anche Lauro e altri professionisti, mi sono resa conto che bisogna studiare, cercare, approfondire. Non avendo fatto l’università, ad esempio, sento il bisogno di leggere molto. E poi bisogna sapersi muovere nel mondo: saper stare con le persone, affrontare le dinamiche del lavoro. Non basta essere artisti: serve rigore».

C’è un traguardo che si è posta? E qualcosa che non vorrebbe mai diventare?

«Il mio obiettivo è avere una fanbase solida, che mi segua davvero, con cui condividere il percorso. Non voglio essere l’artista da “una hit e poi sparisco”. Voglio continuità, costruzione. E voglio che il pubblico cresca con me».

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