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Stefano Bollani: «A Bari i miei i primi passi nel jazz. La musica? Un gioco serio» – L’INTERVISTA

Da trent’anni Stefano Bollani torna regolarmente in Puglia: club, festival, piazze. «Mi sono formato anche qui», racconta, con quella sua leggerezza vigilissima che sul palco diventa improvvisazione e dialogo. Nel Danish Trio, con Jesper Bodilsen (contrabbasso) e Morten Lund (batteria), l’intesa è la regola, l’ascolto il metodo. E anche fuori dal jazz - tra libri,…
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Da trent’anni Stefano Bollani torna regolarmente in Puglia: club, festival, piazze. «Mi sono formato anche qui», racconta, con quella sua leggerezza vigilissima che sul palco diventa improvvisazione e dialogo. Nel Danish Trio, con Jesper Bodilsen (contrabbasso) e Morten Lund (batteria), l’intesa è la regola, l’ascolto il metodo. E anche fuori dal jazz – tra libri, colonne sonore e TV insieme a Valentina Cenni – Bollani rivendica una sola bussola: divertirsi facendo bene le cose. Domani, alle 21, il pianista sarà in piazza Orsini del Balzo, a Mesagne, con il Danish Trio. Il concerto chiude la rassegna Mesagne Piano Night.

Bollani, torna spesso a esibirsi qui in Puglia. Che rapporto ha con questa terra?

«Bellissimo. Ci vengo dagli anni Novanta, quando ero agli inizi e giravo tra Bari e tante altre città della regione. Ho suonato moltissimo in Puglia e mi sento a casa: era una scena vivace, entravi in un qualsiasi locale e sentivi jazz. Una meraviglia».

A Mesagne arriva con il Danish Trio. Qual è la “colla” che vi tiene uniti dopo tanti anni?

«Ci siamo conosciuti nel 2002 grazie a Enrico Rava, che in occasione della sua vittoria al Jazzpar (prestigioso premio jazz assegnato a Copenaghen, ndr) ci ha chiamati a collaborare. È stato amore a prima vista. Già quella sera Jesper Bodilsen disse: “Perché non facciamo un trio?”. Da allora ci tengono insieme due cose: la passione per il gioco e una forte amicizia. Suonare dev’essere una gioia, non una faccenda ingessata. Anche se ci vediamo meno di un tempo, è sempre come se ci fossimo lasciati il giorno prima».

Ha detto che l’ascolto è centrale in questo progetto. È una dote innata o si può allenare?

«Altroché se si allena. Anzi, bisognerebbe insegnarlo subito ai bambini: suonare e, nello stesso istante, ascoltare gli altri. Vale anche nella vita, rispondere a ciò che l’altro ha appena detto, non andare per conto proprio. Sul palco facciamo così: una base di partenza e poi si va a braccio, come tre amici che scelgono un tema e improvvisano davanti al pubblico. È l’ascolto reciproco che rende ogni concerto diverso da tutti gli altri».

Nei suoi concerti c’è tanta ironia. Non stona con la cosiddetta “musica seria”?

«La serietà ha senso solo se è coerente con la musica che si sta suonando. Se improvvisassi con aria serissima su certi brani miei, sarebbe fuori luogo. È come leggere Cervantes e Proust: entrambi bellissimi, ma con livelli di serietà diversi. L’improvvisazione è un gioco combinatorio, una meditazione, un atto creativo continuo. E nel gioco bisogna anche saper ridere quando qualcosa non viene come previsto».

“Contaminazione” è una parola che non la convince. Perché?

«Sa di ospedale, come dice Paolo Fresu. Preferisco parlare di influenze: mi nutro di quello che fanno gli altri perché il rischio, per chi suona tanto, è fossilizzarsi su sé stesso. Dopo i concerti ho bisogno di ascoltare un’ora di musica, spesso pianisti degli anni Cinquanta: la mia missione è sentire ogni sera qualcosa di nuovo, anche quando a suonare sono io».

Ha mai sofferto la routine dei tour “a fotocopia”?

«Poche volte. Capita nel pop: inizio-fine tutto identico, e a me viene l’orticaria. Non so come faccia Gino Paoli a cantare ancora “Il cielo in una stanza”: io non ce la farei. Ma se lui ogni volta la “sente”, fa benissimo a continuare».

Oltre al jazz, oggi si divide anche tra televisione e libri. In quale ambito si sente più a casa?

«Paradossalmente nel programma televisivo con Valentina (Cenni, sua moglie, ndr). All’inizio “Via dei matti” era una scommessa sia per la Rai che per noi, poi col tempo si è formato un gruppo che è diventato come una famiglia: ci sentiamo protetti, lavoriamo bene. E la presenza di Valentina per me è fondamentale».

Molti artisti oggi passano in fretta dai social agli stadi. Che idea si è fatto?

«La cosa fondamentale è proteggerli. Senza gavetta non ti fai la pellaccia, non solo tecnica ma di esperienza, e rischi di finire in mani sbagliate. Sui numeri non so: nel pop si è sempre cercato di apparire più grandi di ciò che si è».

Chi lascerà una traccia?

«Qualcuno sì, ma non saprei dirle chi: ascolto poco quella musica. Però tra i rapper italiani mi piace molto Anastasio».

Finito un tour, le prende il “down”?

«No. Di solito passo subito a un’altra cosa. È proprio il mio modo di stare al mondo: si chiude un progetto e se ne apre un altro».

Se non fosse diventato musicista, cosa sarebbe stato?

«Un bibliotecario. È l’unico lavoro “vero” che ho fatto, durante il servizio civile: mettere in ordine mi divertiva, e vivere in mezzo ai libri mi piace».

Sta leggendo qualcosa in questo momento?

«Un libro di Massimo Citro, “L’illusione. Viaggio nell’invisibile tra scienza e spiritualità”. È ambizioso: prova a raccontare, alla luce della fisica più recente, come vediamo e costruiamo il mondo. Impegnativo, ma affascinante».

C’è qualcosa che, guardando indietro, farebbe diversamente?

«No. Ho iniziato a 15 anni, suonavo due o tre volte a settimana. Non ho mai dovuto immaginare la musica come un lavoro e mi sono sempre divertito. Qualche matrimonio per pagarsi la vita, com’è normale, ma ho suonato ciò che mi piaceva».

C’è un video in cui suona “Sempre e per sempre” con De Gregori. Che ricordo ha di lui?

«Francesco è simpaticissimo. L’ho conosciuto molti anni fa, poi ci siamo ritrovati sul palco: grande artista e grande persona».

Il fatto che sia un po’ burbero è una leggenda quindi?

«Ha dovuto gestire una notorietà complicata: non dev’essere facile essere sempre al centro dell’attenzione».

Novità in arrivo?

«A ottobre uscirà un film d’animazione di Sylvain Chomet, regista e illustratore francese, un biopic su Marcel Pagnol. Ho scritto la colonna sonora mescolando orchestra sinfonica, gruppo jazz e musicisti folk: un’esperienza bellissima, molto stimolante. Il film sarà distribuito in tutto il mondo e uscirà anche il disco».

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