Un importante passo avanti nella diagnosi precoce della schizofrenia è stato compiuto grazie a una ricerca italiana che ha identificato due biomarcatori nel sangue. La scoperta, pubblicata sulla rivista “Schizophrenia”, riguarda due amminoacidi le cui concentrazioni mostrano alterazioni significative ancora prima che la malattia si manifesti clinicamente.
Lo studio è frutto di una collaborazione tra diversi centri di eccellenza italiani: il Ceinge Biotecnologie Avanzate Franco Salvatore di Napoli, l’Università Aldo Moro di Bari, l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, l’Università Federico II di Napoli, l’Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e l’Università Luigi Vanvitelli della Campania.
Tra le menti che si sono dedicate al progetto, Antonio Rampino, Psichiatra e Professore Associato presso il Dipartimento di Biomedicina Traslazionale e Neuroscienze dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, impegnato anche nel campo della divulgazione scientifica.
Da dove nasce questo progetto?
«La schizofrenia è una malattia psichiatrica grave appartenente al gruppo delle psicosi, che compromette la qualità della vita dei pazienti in maniera importante e quasi sempre irreversibile. Le cause di questo disturbo, infatti, sono sostanzialmente sconosciute, il che rende la diagnosi precoce della malattia pressoché impossibile e limita le cure ai soli presidi sintomatici. Il nostro studio ha puntato all’identificazione di variazioni nella composizione in termini di aminoacidi coinvolti nella comunicazione tra neuroni, del siero circolante di individui a rischio di sviluppare il disturbo, di soggetti nella fase precoce della patologia e di individui con malattia conclamata. Lo scopo era quello di identificare potenziali biomarcatori precoci della malattia, in grado di migliorare la tempestività della diagnosi e dei relativi interventi».
Quali sono gli esiti della vostra ricerca?
«I nostri risultati mostrano che la concentrazione nel siero di alcuni aminoacidi coinvolti nella trasmissione tra neuroni del cervello, è significativamente differente tra soggetti a rischio di sviluppare una psicosi, individui al primo episodio di questa condizione ed in pazienti con una schizofrenia conclamata. Questi risultati non costituiscono certamente la prova definitiva dell’importanza di queste variazioni nel formulare una diagnosi precoce di schizofrenia, tuttavia gettano le basi per futuri studi volti a confermare il valore clinico dei nostri ritrovamenti».
Qual è l’importanza della divulgazione scientifica a proposito di questi temi?
«Spesso i disturbi psichiatrici gravi, di cui la schizofrenia è un esempio paradigmatico, sono percepiti come condizioni senza via d’uscita, pertanto comunicare gli sforzi che la ricerca medica compie per chiarire le cause di tali disturbi, evidenziando possibili strategie per la loro diagnosi precoce e per sviluppare trattamenti sempre più efficaci, costituisce un fondamentale messaggio di speranza per quanti, soprattutto tra pazienti e caregiver, sono quotidianamente esposti al dramma di una malattia mentale. In questo senso, la scienza dovrebbe sempre più sforzarsi di consegnare questo messaggio con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori».
Su quale aspetto continuerete a lavorare?
«Nel futuro continueremo certamente ad approfondire il ruolo tanto di fattori biologici, come quelli discussi in questo lavoro, quanto di fattori ambientali e delle loro reciproche interazioni nello sviluppo di disturbi complessi come la schizofrenia e le altre psicosi maggiori, con lo scopo di supportare la diagnosi clinica di queste condizioni con strumenti sempre più raffinati di medicina di precisione».