La giornalista Francesca Barra, che ha denunciato alla Polizia Postale il sito SocialMediaGirls per aver pubblicato immagini iperrealistiche, generate dall’intelligenza artificiale, della sua persona denudata, è solo l’ultima di una lunga serie di donne la cui immagine è stata abusata su questo e altri siti analoghi, a partire dal caso di Phica che ha fatto discutere questa estate, ma anche Bikinioff, Clothoff, Undress.app, Nudify.Online, Ai-nudez, MakeNude.ai: da Selvaggia Lucarelli a Federica Nargi, da Maria De Filippi e Andrea Delogu a Cristina D’Avena, da Chiara Ferragni a Elodie. E poi Anna Tatangelo, Elisabetta Canalis, Martina Colombari, Justine Mattera, Tess Masazza, Giulia De Lellis, Annalisa, Paola Perego, Caterina Balivo, Michelle Hunziker, Arisa, Francesca Fagnani, Veronica Gentili.
Da solo, SocialMediaGirls raccoglie oltre 50 mila foto fake di donne nude, non solo dello spettacolo: lo scorso settembre una diciannovenne foggiana aveva visto diffondere immagini di nudo col suo volto, dichiarando che la sua vita in città era diventata «un incubo», con la vergogna e il costante terrore che qualcuno pensasse che fossero autentiche. Ne parliamo con la professoressa Francesca R. Recchia Luciani, recentemente delegata dal rettore dell’Università di Bari alle politiche di genere e al gender audit.
Di fronte a questi dati, il problema assume carattere di allarme sociale, non crede?
«Quello posto da queste piattaforme è un problema enorme, perché ha a che fare col tema del consenso, che resta ancora, soprattutto in Italia, un grande buco nero nelle relazioni tra uomini e donne. Molte critiche su queste piattaforme che denudano le donne con strumenti di intelligenza artificiale si concentrano sulla diffusione delle immagini. Ma prima ancora di questo reato dovremmo denunciare l’assenza assoluta di consenso e di informazione delle persone sottoposte a questo trattamento. Trascurare questo elemento significa ignorare che qualsiasi tipo di rapporto, di qualunque genere, anche a distanza, deve tener conto del consenso dell’altra persona».
Può approfondire questo aspetto?
«Il consenso non può essere dato per scontato, a prescindere che una persona sia un personaggio pubblico e che lavori o meno nell’ambito del cinema o della tv, perché, come vediamo, questi fenomeni possono colpire chiunque, anche donne giovanissime o minorenni. In passato si dava per scontato che determinati rapporti potessero includere al loro interno forme di consenso non necessariamente rilevate, ma in qualche modo date per acquisite. E invece non deve esserci nulla di acquisito. Tanti testi oggi insistono sulla necessità di esprimere il consenso in maniera netta e risoluta. E questo vale anche quando il consenso viene estorto dalle situazioni sociali, quando non si riesce a dire di no perché le persone coinvolte sono più fragili o più deboli. Vorrei ricordare che la principale premessa dell’atteggiamento assolutorio nei confronti delle molestie e delle violenze sessuali è proprio quella di attribuire alla vittima un consenso più o meno esplicito».
Lei apre qui il tema della violenza, dunque?
«Le piattaforme che usano l’intelligenza artificiale per denudare le donne sono di una violenza estrema, perché mortificano due volte il corpo di queste vittime, di queste persone. La prima volta, oltrepassando del tutto la loro volontà, la seconda perché lavorano su una vera e propria estorsione della nudità che è assolutamente paragonabile ad uno stupro, uno stupro simbolico ma molto realistico. La cosa che turba di questa modalità di utilizzo dell’intelligenza artificiale è anche il fatto che questi corpi possono anche essere animati. Il che significa che queste persone non solo si trovano a essere denudate, ma possono anche partecipare a tutto un immaginario pornografico, agendo con comportamenti che non avrebbero mai lontanamente adottato nella vita reale. Questo comporta una violenza moltiplicata più e più volte, perché non solo vale tutto quello che abbiamo detto rispetto al consenso, ma in più trasforma l’immagine di queste persone in soggetti che agiscono. Io considero questa come una forma estrema di stupro, collegato ai rapporti di potere. Dovremmo domandarci: perché le donne non hanno piattaforme social con milioni di iscritte che spogliano gli uomini? Questo dimostra che, nonostante le nuove tecnologie, siamo ancora in un regime patriarcale che è purtroppo quello dei corpi assoggettati, dentro cui le battaglie da fare sono ancora tante per l’autodeterminazione delle donne».
Da qui l’importanza del suo recente incarico?
«Oltre che per il riconoscimento del valore del dottorato in gender studies che io dirigo, e che a distanza di quattro anni dalla sua istituzione ha realizzato oltre cento ricerche di dottorato ancora in corso, questa delega da parte del magnifico rettore Bellotti è veramente molto importante perché mette insieme non solo le politiche di genere dell’Università di Bari, ma anche tutte quelle pratiche virtuose applicative come il bilancio di genere, il Gender Equality Plan, che incarnano le prospettive future sulle politiche di genere. L’obiettivo è fare in modo che le nuove politiche di genere universitarie che adottiamo a Bari rappresentino un esempio anche per altre istituzioni».