Con «Umano non umano», la rassegna che cura al Teatro Kismet di Bari, Nicola Lagioia prova a mettere in fila le domande più radicali del nostro tempo: che cosa stiamo diventando, a quale velocità stiamo cambiando, e se esista ancora un’idea condivisibile di umano. Il Novecento è alle spalle, il nuovo secolo ha già mostrato il suo volto, inquietante e prodigioso insieme.
Lagioia, quando ha capito che era necessario interrogarsi apertamente su ciò che siamo, e che una rassegna poteva essere lo strumento giusto?
«È da qualche anno che è evidente come il XXI secolo non sia più una coda del Novecento. Porta con sé elementi del passato, certo, ma ha un aspetto nuovo, per certi versi inquietante. Avvertiamo su di noi un’accelerazione che potrebbe ridefinire il modo in cui abbiamo inteso finora la nostra specie. L’essere umano è sempre stato in mutazione, ma oggi questa mutazione appare particolarmente rapida. Chiederci che cosa stiamo diventando non è solo legittimo, è necessario».
Il percorso attraversa discipline diverse. Che tipo di sguardo sul presente ne emerge?
«Viviamo un tempo che esplode continuamente in schegge. Per essere compreso ha bisogno di più discipline: antropologia, filosofia, archeologia, informatica, letteratura, geopolitica. Le arti restano centrali, come negli anni passati, ma oggi non bastano da sole. Solo mettendo insieme punti di vista diversi possiamo provare a rimettere insieme il quadro e capire cosa riguarda il nostro tempo e cosa riguarda noi, anche individualmente».
La letteratura come si colloca in un mondo che sembra premiare la superficie?
«Il mondo premia la superficie, ma la letteratura non può permettersi di essere superficiale. Deve puntare alla profondità, scrutare il cuore dell’uomo, tentare di comprendere la complessità del reale. Quando Calvino parlava di leggerezza non la confondeva certo con la superficialità. Anzi, oggi viviamo una superficialità tragica, intrecciata alla brutalità e alla violenza. Proprio per questo la letteratura deve provare a bucare quella superficie e vedere cosa c’è sotto».
Il confronto in programma con Paola Caridi porta al centro il Mediterraneo e il Medio Oriente. Pensa che la difficoltà a comprendere questi conflitti sia prima di tutto una crisi politica o una crisi culturale?
«No, riguarda anche una crisi culturale, ma soprattutto una crisi spirituale. È qualcosa di più profondo. C’è una parte di noi che non riesce a credere davvero a ciò che accade, perché è troppo insopportabile. Oppure perché, una volta realizzato, bisognerebbe agire, e non sempre abbiamo il coraggio di farlo. Questa astrazione è una malattia spirituale che ci porta a voltare lo sguardo altrove».
Tornare alle origini dell’arte che senso ha oggi?
«Per capire chi stiamo diventando dobbiamo capire chi siamo stati. In quel passato remoto c’è una scintilla del presente e persino del futuro. Picasso, davanti alle pitture parietali, disse che non avevamo inventato nulla. C’è qualcosa in quelle caverne che paradossalmente viene dal futuro».
L’ultimo incontro della rassegna è dedicato all’intelligenza artificiale. La preoccupa di più ciò che le macchine potranno fare, o ciò che rischiamo di fare noi attraverso di esse?
«Non tanto ciò che potrà fare, ma ciò che noi rischiamo di fare attraverso di essa. L’IA esplode in un tempo dominato da violenza, prevaricazione, ingiustizia, collasso climatico. Il rischio è che venga usata per alimentare queste tragedie, o peggio che assorba di noi il lato oscuro invece di quello luminoso».
In filigrana, la rassegna attraversa una domanda sull’identità: che cosa resta stabile e che cosa cambia. Come scrittore, questo passaggio lo vive più come una perdita di riferimenti o come un territorio ancora da esplorare?
«A volte sembra che il terreno venga meno sotto i piedi. Siamo in mare aperto: è affascinante, perché consente scoperte, ma espone anche alle tempeste. È una terra sconosciuta, ed è proprio questo che la rende insieme interessante e spaventosa».
Viene da mesi di confronto con il pubblico sempre più intenso. Che rapporto ha oggi con la scrittura?
«Lavoro a un romanzo. Uscirà, credo, verso la fine del 2026. Per ora preferisco non dire altro: ci sto ancora lavorando».