Parla con la calma di chi ha attraversato decenni di musica, sapendo che certe canzoni non passano mai. Mogol racconta la disciplina del lavoro quotidiano, la severità con cui Battisti studiava la musica anglosassone per farla diventare parte di sé. La memoria non è mai compiacimento: riaffiora nei dettagli minimi – un marciapiede di Los Angeles, la lastra ai polmoni che gli ha salvato la vita, i pranzi con Lucio dopo la rottura – e si intreccia con giudizi netti sulla musica di oggi, con la fiducia riposta in Gianmarco Carroccia, con un’opera teatrale che sta scrivendo con Cocciante.
Nella sua voce non c’è nostalgia, ma la certezza che l’eleganza, in arte come nella vita, resti un valore non negoziabile. Giovedì 21 agosto il paroliere sarà con Carroccia sul palco della Svevarena di Bisceglie con lo show “Emozioni”.
Maestro, porterà “Emozioni” alla Svevarena di Bisceglie. Che cosa significa per lei, oggi, riproporre dal vivo le canzoni di Battisti?
«Significa assecondare i desideri del pubblico. Se questo spettacolo non interessasse le piazze non si riempirebbero. Recentemente a Cervia erano in seimila, a Matino tremila: guardi le fotografie, è un mare di gente. È la prova che quelle canzoni parlano ancora, nonostante il tempo».
Che cosa rende l’opera di Battisti così attuale nel 2025?
«È intatta. La gente mi ferma per strada e dice: “Quelle canzoni le ho nel cuore, le cantavo da ragazzo”. È questo che conta: il fatto che la musica resti dentro, che non si consumi. Per me è la conferma che quel lavoro non passerà mai».
Come nasce, per lei, una canzone?
«Ascolto la melodia e mi chiedo: che cosa sta dicendo? Se la frase è sussurrata, scrivo parole intime; se la musica è allegra, scrivo testi allegri. Musica e parole devono dire la stessa cosa, altrimenti non funziona. Ho sempre lavorato così: parto dalla musica, mai dal testo».
Sul palco sarà accompagnato da Gianmarco Carroccia.
«È un interprete molto bravo. Ha frequentato il CET, che considero la scuola più importante d’Europa».
La somiglianza con Battisti?
«È una coincidenza, non certo una costruzione. Come persone non sono uguali, hanno caratteri molto diversi, ma il modo di cantare è molto simile. E posso dire che Gianmarco va in scena con autenticità, senza imitare».
Torniamo al sodalizio con Battisti. Che atmosfera c’era quando lavoravate insieme?
«Con Lucio lavoravo una settimana all’anno, alle nove del mattino. Imponevo quell’orario perché scrivo quando ho energia piena. Ogni giorno lui mi faceva ascoltare una canzone e io ci mettevo il testo: ci voleva circa un’ora. In sette giorni nascevano undici o dodici brani. Una disciplina ferrea, ma naturale».
C’è un dettaglio che ricorda di quei giorni insieme?
«Lucio era rigorosissimo: studiava sette ore al giorno i grandi della musica angloamericana. Non solo ascoltava: analizzava, scomponeva, si soffermava persino sulle pause. Apprendeva e trasformava tutto in parte di sé. È questo che lo ha reso unico».
“Ancora tu” è uno dei suoi brani che più amo. Mi racconta come nacque?
«Da una storia personale. Con una fidanzata ci eravamo lasciati in modo benevolo, poi lei si è rifatta viva e ho scritto il testo. Era molto bella. L’ho composto a Los Angeles, seduto sul marciapiede, in una giornata d’estate. Ma quando ci lasciammo eravamo al mare, non in America».
È vero come dice nel testo che “aveva ripreso a fumare”?
«Sì, ma smisi poco dopo».
Le mancano le sigarette?
«Macché, quella scelta mi ha salvato la vita. Poco tempo dopo una lastra fatta per caso rivelò un piccolo buco al polmone: se avessi continuato un anno, sarei morto. Quando rifeci l’esame, il buco si era chiuso. Da quell’esperienza è nato anche il libro “La rinascita”, sul tema della salute e dei corretti stili di vita, che è arrivato al primo posto su Amazon».
La separazione artistica da Battisti, nei primi anni Ottanta, resta un passaggio cruciale. Come la ricorda?
«Chiesi condizioni di equità: le stesse percentuali nei diritti d’autore. La sera mi disse di sì, la mattina ci ripensò, credo influenzato da qualcuno. Non ho rimpianti: non era questione di soldi, ma di equità. E l’amicizia non si ruppe. A volte ci vedevamo a pranzo a casa mia con sua moglie».
Dopo Lucio, ha trovato un’alchimia simile con altri artisti?
«Con Riccardo Cocciante ho scritto canzoni molto belle come “Se stiamo insieme”, con cui abbiamo vinto Sanremo nel 1991. E ora stiamo lavorando a un’opera su San Francesco, “Io, Francesco”, che debutterà l’anno prossimo. Un arcivescovo studioso del santo ha letto il testo e lo ha trovato coerente, aggiungendo un dettaglio sulle sue stigmate: non aveva fori ma escrescenze. È stato prezioso».
Che idea si è fatto della cosiddetta “fase Panella” di Battisti?
«Faccio l’autore, i giudizi spettano ai giornalisti. Quelle canzoni non le conosco, non ho letto i testi».
La vedova di Battisti ha diffuso una lettera aperta che ha fatto discutere. Ci è rimasto male?
«La lettera nasceva da un episodio preciso. Avevo ricordato un medico che aveva parlato con Lucio: qualcuno disse che me l’ero inventato. Poi quel medico si è fatto vivo, con nome e cognome, confermando la mia versione. Certo, avrei preferito evitare polemiche».
Ascolta musica contemporanea?
«No. Non la metto in macchina, non la sento in radio. Mi fido del gusto del mio assistente, che mi fa ascoltare brani del passato, anche poco conosciuti».
Che opinione ha dei testi contemporanei?
«Alcuni sono violenti e volgari. Sono stato a una riunione al ministero della Cultura, con il sottosegretario: ho proposto multe molto salate, 50mila euro, per chi diffonde contenuti scurrili o che istigano alla violenza».
Un augurio alla musica italiana del futuro?
«Che ci siano cose sempre più belle. Ed eleganti».