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Monopoli, il fotografo Martin Parr in città per il Phest: «Tutti hanno qualcosa da immortalare» – L’INTERVISTA

Martin Parr ha sempre guardato il mondo con una lente che rovescia le convenzioni: l’ordinario diventa spettacolo, il consumo un rito da osservare, la quotidianità un palcoscenico dove i dettagli contano più della trama. Da decenni il fotografo britannico racconta la società attraverso ironia e vicinanza estrema, mescolando la curiosità antropologica con la lucidità dello…
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Martin Parr ha sempre guardato il mondo con una lente che rovescia le convenzioni: l’ordinario diventa spettacolo, il consumo un rito da osservare, la quotidianità un palcoscenico dove i dettagli contano più della trama. Da decenni il fotografo britannico racconta la società attraverso ironia e vicinanza estrema, mescolando la curiosità antropologica con la lucidità dello sguardo estetico. Le sue immagini, che hanno fatto discutere critici e colleghi sin dagli anni di «The Last Resort», continuano a interrogare la nostra capacità di riconoscerci nei gesti più banali, negli hobby e nelle abitudini di tutti. Domani e domenica, il fotografo sarà a Monopoli, ospite di Phest.

Ricorda la prima volta in cui ha preso in mano una macchina fotografica?

«Sì, ho scattato una foto a mio padre su un ruscello ghiacciato, era il 1963».

Cosa ha provato tenendo in mano per la prima volta una macchina fotografica?

«Non ci ho pensato molto. Qualche anno dopo, con l’aiuto di mio nonno, ho imparato davvero la fotografia e lì mi sono appassionato. Ho iniziato a fare immagini che trovavo interessanti».

Parliamo delle sue prime influenze. Chi sono stati i fotografi che l’hanno segnata?

«Tony Ray-Jones è stato fondamentale. E poi Garry Winogrand. Tony Ray-Jones introdusse nel Regno Unito un modo di fotografare che non avevamo mai visto prima, ed era entusiasmante».

Dopo tanti anni di scatti in bianco e nero, perché è passato al colore e al digitale?

«Non è stato un passaggio rapido, ma alla fine ci sono arrivato. Con il digitale ottieni più immagini su una scheda, puoi regolare meglio l’esposizione, soprattutto di notte, fotografando feste o persone che ballano. È più flessibile».

Ha mai sentito il bisogno di una pausa dalla macchina fotografica?

«No. La fotografia è con me da quando avevo 14 anni».

Come ha trovato la sua voce interiore come artista?

«Credo fosse già lì. Il modo in cui fotografavo era esclusivamente mio.

Il suo ingresso in «Magnum» suscitò controversie. Come mai?

«Dovresti chiederlo a loro. Molti erano contrari. Dicevano che sfruttavo la classe operaia. Ma alla fine ho capito che stavo facendo qualcosa di giusto».

Lei scatta spesso molto da vicino. Come riesce a far sì che quei momenti non risultino invadenti?

«Uso una lente close-up. Non direi che siano naturali, ma funzionano. Ricordi, io sono un fotografo, non uno scrittore o un giornalista».

Lei ha fotografato tanto la working class quanto i circoli dell’alta società. Cosa le ha insegnato questo doppio sguardo sulla società britannica?

«Che siamo molto bravi con gli hobby (sorride, ndr). Ho fotografato spesso le persone nel loro tempo libero, ed è ciò che mi interessa: i passatempi».

Qual è stato il cambiamento più grande nella società britannica, in questi decenni?

«Credo l’introduzione dello smartphone. Ha cambiato tutto».

Oggi con gli smartphone tutti hanno l’impressione di poter essere fotografi. Che ne pensa?

«Va benissimo. Non tutti usano lo smartphone solo per scattare foto con la famiglia. Alcuni lo prendono molto sul serio, anch’io. La qualità è straordinaria».

In «Luxury» ha documentato la ricchezza globale. Cosa l’ha sorpresa di più nel fotografare il privilegio?

«Il privilegio è lì per essere fotografato. Ho fotografato sia l’alta società sia la classe operaia. Da entrambe si impara».

Le è capitato che qualcuno reagisse male?

«Sì, a volte. Ma oggi basta cancellare una foto e non è un problema».

Lei ha detto che l’ordinario può essere affascinante quanto l’esotico. Come mantiene lo sguardo sempre fresco?

«Cerco sempre di capire come rendere interessanti le cose ordinarie. È una combinazione di attenzione e curiosità».

Qual è stato il luogo più strano in cui ha lavorato?

«La Corea del Nord. È come un set cinematografico. Non ci si può muovere senza una guida, è molto limitante. Ma sono riuscito comunque a scattare qualche foto».

Non ha mai vissuto situazioni di pericolo nel suo lavoro?

«No, non direi. A meno che non venga arrestato e rinchiuso in una prigione nordcoreana, cosa che si cerca di evitare».

Dopo cinque decenni, cosa la spinge ancora a fotografare?

«La curiosità per il mondo. Non sono affatto stanco: la battaglia per ottenere buone immagini continua».

E in tempi di guerra, qual è il ruolo del fotografo, per lei?

«In Magnum ci sono fotografi che vanno in guerra, ma non è per me. Io sono interessato alle battaglie nei supermercati, non a quelle in Ucraina o altrove».

Non l’ha mai attratta la fotografia di guerra?

Mai. Non l’ho mai fatta e non la farò mai».

Oggi arriva in Puglia.

«Sì, sono in viaggio ora, da Heathrow. Ci sono stato per un matrimonio un paio d’anni fa. Bellissima zona».

Ha già scattato delle foto qui?

«Sì, e lo farò di nuovo. Ricordo di aver incontrato persone cordiali, rilassate».

Dopo una carriera così lunga, qual è il suo obiettivo oggi?

«Costruire il mio archivio, per lasciarlo alla fondazione quando non ci sarò più».

Pensa spesso alla morte?

«Non particolarmente. Ma so che è inevitabile. Prima o poi devi farci i conti».

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